Emil 11
ESEGESI DEL DECADIMENTO
Ognuno di noi è nato con una dose di purezza, predestinata a essere corrotta dal commercio con gli uomini, da questo peccato contro la solitudine. Giacché ognuno di noi fa l'impossibile per non essere votato a se stesso. Il nostro simile non è fatalità bensì tentazione di decadimento. Incapaci di mantenere pulite le nostre mani e inalterati i nostri cuori, ci avvoltoliamo, assetati di disgusto e bramosi di pestilenza, nel fango unanime. E quando sogniamo mari convertiti in acqua benedetta, è troppo tardi per immergervisi, e la nostra
corruzione troppo profonda ci impedisce di annegarvi: il mondo ha infestato la nostra solitudine; su di noi le tracce degli altri diventano indelebili.
Nella scala delle creature, soltanto l'uomo ispira un disgusto costante. La ripugnanza che provoca una bestia è passeggera, non matura in alcun modo nel pensiero, mentre i nostri simili assillano le nostre riflessioni, si infiltrano nel meccanismo del nostro distacco dal mondo per confermarci nel nostro sistema di rifiuto e di non adesione. Dopo ogni conversazione, la cui raffinatezza indica da sola il livello di una civiltà, perchè mai è impossibile non rimpiangere il Sahara e non invidiare le piante o i monologhi infiniti della zoologia?
Se con ogni nostra parola riportiamo una vittoria sul nulla, è solo per subirne ancora più il dominio. Noi moriamo in proporzione alle parole che spargiamo intorno a noi... Coloro che parlano non hanno segreti. E
tutti noi parliamo. Ci tradiamo, esibiamo il nostro cuore; carnefice dell'indicibile, ognuno di noi si accanisce nella distruzione di tutti i misteri, a cominciare dai propri. E se ci incontriamo con gli altri, è per avvilirci insieme in una corsa verso il vuoto - che sia negli scambi di idee, nelle confessioni o negli intrighi. La curiosità non ha provocato soltanto la prima caduta, ma anche quelle innumerevoli di tutti i giorni. La vita non è altro che questa impazienza di decadere, di prostituire le solitudini verginali dell'anima mediante il dialogo,
negazione immemoriale e quotidiana del Paradiso. L'uomo dovrebbe ascoltare solo se stesso nell'estasi senza fine del Verbo intrasmissibile, forgiarsi parole per i propri silenzi e accordi percettibili unicamente ai propri rimpianti. E invece è il chiacchierone dell'universo: parla a nome degli altri; il suo io ama il plurale. E chi parla a nome degli altri è sempre un impostore. I politici, i riformatori e tutti coloro che si appellano a un pretesto collettivo sono dei truffatori. L'unica menzogna che non sia totale è quella dell'artista, poichè egli non inventa che se stesso. Al di fuori dell'abbandono all'incomunicabile, della sospensione nel bel mezzo delle nostre emozioni sconsolate e mute, la vita non è che fragore su una distesa senza coordinate, e l'universo una geometria epilettica.
(Il plurale implicito del "sì" e quello esplicito del "noi" costituiscono il confortevole rifugio dell'esistenza falsa. Soltanto il poeta si assume la responsabilità dell'"io", soltanto lui parla a nome di se stesso, soltanto lui ha il diritto di farlo. La poesia s'imbastardisce quando diviene permeabile alla profezia o alla dottrina: la "missione" soffoca il canto, l'idea intralcia il volo. Il lato "generoso" di Shelley rende effimera gran parte della sua opera: Shakespeare, per fortuna, non ha mai "servito" nulla. Il trionfo della non autenticità si attua nell'attività filosofica, questo compiacimento del "sì", e nell'attività profetica (religiosa, morale, politica),
questa apoteosi del "noi". La definizione è la menzogna dello spirito astratto, la formula ispirata la menzogna dello spirito militante: c'è sempre una definizione all'origine di un tempio; una formula vi raduna
ineluttabilmente dei fedeli. è il modo in cui cominciano tutti gli insegnamenti. Come non orientarsi allora verso la poesia? Essa ha - al pari della vita - la scusante di non dimostrare nulla).