Emil 13
SUPREMAZIA DELL'AGGETTIVO.
Poichè non può esservi che un numero ristretto di posizioni di fronte ai problemi ultimi, lo spirito si trova limitato nella sua espansione da quel confine naturale che è l'essenziale, da quella impossibilità di moltiplicare indefinitamente le difficoltà capitali: la storia si dedica unicamente a cambiare volto a una quantità di interrogativi e di soluzioni. Ciò che lo spirito inventa è semplicemente una serie di qualificazioni nuove; esso ribattezza gli elementi o cerca nei suoi lessici epiteti meno logori per uno stesso e immutabile dolore. Si è sempre sofferto, ma la sofferenza è stata "sublime", "giusta", o "assurda", a seconda delle concezioni globali alimentate dalla filosofia dell'epoca. L'infelicità costituisce la trama di tutto ciò che respira; ma le sue modalità si sono evolute, hanno formato quella successione di apparenze irriducibili che induce ognuno a credere di essere il primo a soffrire così. L'orgoglio di questa unicità lo incita a invaghirsi del proprio male e a sopportarlo. In un mondo di sofferenze, ciascuna di esse è solipsistica rispetto a tutte le altre. L'aspetto originale dell'infelicità è dovuto alla qualità verbale che la isola nell'insieme delle parole e delle sensazioni...
I qualificativi cambiano; tale cambiamento si chiama progresso dello spirito. Sopprimeteli tutti: che cosa rimane della civiltà? La differenza tra intelligenze e stupidità sta nel modo di maneggiare l'aggettivo, il cui uso uniforme costituisce la banalità. Dio stesso vive soltanto grazie agli aggettivi che gli vengono aggiunti; questa è la ragion d'essere della teologia. E quindi l'uomo, qualificando in modo sempre diverso la monotonia della sua infelicità, non si giustifica dinnanzi allo spirito se non in virtù della ricerca appassionata di un nuovo aggettivo.
(E tuttavia questa ricerca è patetica. La miseria dell'espressione, che è la miseria dello spirito, si manifesta nella povertà delle parole, nel loro esaurirsi e nel loro degradarsi: gli attributi con cui definiamo le cose e le sensazioni giacciono alla fine davanti a noi come carogne verbali. Perciò volgiamo sguardi pieni di rimpianto al tempo in cui le parole emanavano semplicemente un odore di chiuso. Ogni alessandrinismo deriva inizialmente dal bisogno di arieggiare le parole, di supplire al loro avvizzimento con una raffinatezza vigile; ma finisce in una prostrazione nella quale lo spirito e il verbo si confondono e si decompongono. Tappa idealmente estrema di una letteratura e di una civiltà: immaginiamoci un Valery con l'anima di un Nerone...Fino a che i nostri sensi freschi e il nostro cuore ingenuo si ritrovano e si dilettano nell'universo delle qualificazioni, essi prosperano secondando l'aggettivo, il quale, una volta anatomizzato, si rivela improprio e manchevole. Dello spazio, del tempo, e della sofferenza noi diciamo che sono infiniti; ma infinito non ha più valore di "bello", "sublime", "armonioso", "brutto"...Vogliamo imporci di vedere in fondo alle parole? Non si vede nulla, per il motivo che ognuna di esse, staccata dall'anima espansiva e fertile, è vuota e inconsistente. Il potere dell'intelligenza si esercita a proiettare lustro su di esse, a levigarle e a renderle splendenti; questo potere, eretto a sistema, si chiama cultura -fuoco d'artificio dietro il quale c'è il nulla).