Emil 66
EFFIGIE DEL FALLITO
Poiché qualsiasi atto gli fa orrore, ripete a se stesso: "Che sciocchezza il movimento!". Non sono tanto gli avvenimenti a irritarlo quanto l'idea di prendervi parte; e non si muove se non per allontanarsene. I suoi sogghigni hanno devastato la vita prima che egli ne esaurisse la linfa. è un Ecclesiaste da trivio, che attinge all'universale insignificanza una scusa alle proprie sconfitte. Ansioso di trovare futile qualsiasi cosa, vi riesce facilmente, poiché tutte le evidenze stanno dalla sua parte. Nella battaglia degli argomenti, è sempre vittorioso, così come nell'azione è sempre vinto: egli ha "ragione", rifiuta tutto - e tutto lo rifiuta. Ha capito prematuramente ciò che non si deve capire se si vuole vivere - e poiché il suo talento conosceva troppo bene le proprie funzioni, egli lo ha dissipato per paura che defluisse nell'idiozia di un'opera. Portando l'immagine di quello che avrebbe potuto essere come uno stigma e come un nimbo, arrosisce e si gloria dell'eccellenza della propria sterilità, perpetuamente estraneo alle seduzioni ingenue, unico affrancato tra gli iloti del Tempo. Tra la sua libertà dall'immensità dei suoi inadempimenti; è un dio infinito e miserevole che nessuna creazione limita, nessuna creatura adora e nessuno risparmia. Il disprezzo che ha riversato su gli altri, gli altri lo ricambiano. Espia unicamente gli atti che non ha compiuto, il cui numero, però supera il calcolo del suo orgoglio ferito. Ma alla fine, in guisa di consolazione e al termine di una vita senza titoli, egli porta la sua inutilità come una corona.
("A che pro?" - adagio del Fallito, di colui che si compiace della morte... quale stimolante quando si comincia a esserne ossessionati! Giacché la morte , prima di farsi troppo opprimente, ci arrichisce, aumenta le nostre forze al suo contatto; è più avanti che esercita su di noi la sua opera di distruzione. Poiché l'evidenza dell'inutilità di qualsiasi sforzo quella certa sensazione di cadavere futuro si ergono già nel presente, riempiendo l'orizzonte del tempo, esse finiscono con l'intorpidirci le idee, le speranze e i muscoli, sicché quell'eccesso di slancio suscitato dalla nostra ultima ossessione si converte - non appena questa si sia stabilita irrevocabilmente nello spirito - in una stasi della nostra vitalità. Così, questa ossessione ci incita a divenire tutto e niente. In teoria essa dovrebbe metterci davanti alla sola scelta possibile: il convento o il cabaret. Ma quando non riusciamo più a sfuggire ad essa né con l'eternità né con i piaceri, quando, assillati nel mezzo della nostra vita, siamo lontani dal cielo come dalla volgarità, essa ci trasforma in quella sorta di eroi decomposti che promettono tutto e non concludono nulla: oziosi che si affannano nel Vuoto; carogne verticali, la cui unica attività si riduce al pensare che cesseranno di essere...)