Emil 133
FANTASIA MONACALE
I tempi in cui c'erano donne che prendevano il velo per nascondere al mondo, come a se stesse, l'avanzare dell'età, l'appannarsi del loro splendore, lo svanire del loro fascino... e in cui c'erano uomini che, stanchi di gloria e di fasto, lasciavano la corte per rifugiarsi nella vita devota... La moda di convertirsi per pudore è scomparsa col Grand Siècle: l'ombra di Pascal e un riflesso di Jacqueline si stendono, come seduzioni invisibili, sull'ultimo dei cortigiani, sulla bellezza più frivola. Ma i Port-Royal furono distrutti una volta per tutte, e con essi i luoghi propizi alle agonie discrete e solitarie.
Non c'è più la civetteria del convento: dove cercare ancora, per addolcire il nostro decadimento, una cornice insieme cupa e sontuosa? Un epicureo come Saint-évremond ne immaginava una di suo gusto, confortevole e molle quanto il suo savoir-vivre. In quei tempi bisognava ancora tener contro Dio, adattarlo all'incredulità, includerlo nella solitudine. Accomodamento piacevolissimo, tramontato per sempre! Noi invece avremmo bisogno di chiostri altrettanto spogli, altrettanto vuoti delle nostre anime, per smarrirci in essi senza l'assistenza dei cieli, in una purezza di ideali assenti; di chiostri adatti agli angeli disingannati che, nella loro caduta, a furia di illusioni vinte, restassero ancora immacolati. Agogniamo una moda di ritiri in un'eternità senza fede, una vestizione nel nulla, un Ordine affrancato dai misteri, nel quale nessun "fratello" potesse appellarsi a niente, sdegnando la propria come l'altrui salvezza, un Ordine dell'impossibile salvezza...
IN ONORE DELLA FOLLIA
Better I were distract: so should my thoughts be served from
my griefs.
Così esclama Gloucester davanti alla follia di re Lear... Per separarci dalle nostre pene, la nostra ultima risorsa è il delirio; sottoposti ai suoi traviamenti, non incontriamo più le nostre afflizioni: paralleli ai nostri dolori e al margine delle nostre tristezze, noi vaneggiamo in una tenebra salutare. Quando si esecra quella scabbia che si chiama vita, e si è stanchi dei pruriti della durata, la sicurezza del folle in mezzo alle sue angustie diventa una tentazione e un modello: che una sorte benigna ci dispensi dalla nostra ragione! Non c'è via d'uscita finché l'intelletto rimane più attento ai moti del cuore, finché non se ne disabitua! Io aspiro alle notti dell'idiota, alle sue sofferenze minerali, alla fortuna di gemere con indifferenza come se si trattasse dei gemiti di un altro, a un calvario in cui si è estranei a sé, in cui le proprie grida vengono da altrove, a un inferno anonimo nel quale si danza e si ghigna distruggendosi. Vivere e morire in terza persona, esiliarmi in me stesso, dissociarmi dal mio nome, distolto per sempre da quello che fui: attingere infine - dato che la vita è tollerabile solo a questo prezzo - la saggezza della demenza...