Emil 137
INVOCAZIONE ALL'INSONNIA
Avevo diciassette anni e credevo nella filosofia. Ciò che non si richiamava a essa mi sembrava peccato o lerciume. I poeti? Saltimbanchi adatti al divertimento delle donnette. L'azione? Imbecillità in delirio. L'amore, la morte? Pretesti di infimo ordine che si rifiutano all'onore del concetto. Odore nauseabondo di un universo indegno del profumo dello spirito... Il concreto, che macchia. Godere o soffrire, che vergogna! Mi sembrava che solo l'astrazione palpitasse: mi abbandonavo ad amori ancillari per paura che un oggetto più nobile mi facesse infrangere i miei principi e mi esponesse alle degradazioni del cuore. Mi ripetevo: solo il bordello è compatibile con la metafisica; e spiavo - per fuggire la poesia - gli occhi delle servette e i sospiri delle puttane.
...Quando giungesti, Insonnia, a scuotere la mia carne e il mio orgoglio, tu che trasformi il bruto giovanile, ne sfumi gli istinti, ne attizzi i sogni, tu che in una sola notte dispensi più sapere dei giorni conclusi nel riposo e, alle palpebre doloranti, ti riveli avvenimento più importante delle malattie senza nome o dei disastri del tempo - tu mi facesti udire il ronfare della salute, gli uomini sprofondati nell'oblio sonoro, mentre la mia solitudine inglobava il buio circostante e diventava più vasta della notte. Tutto dormiva, tutto dormiva per sempre. Non più alba: veglierò così sino alla fine dei tempi - allora mi si attenderà per chiedermi conto dello spazio bianco dei miei sogni... Ogni notte era uguale alle altre, ogni notte era eterna. E io mi sentivo solidale con tutti coloro che non possono dormire, con tutti questi fratelli sconosciuti. Come i viziosi e i fanatici, avevo un segreto; come loro avrei costituito un clan, al quale tutto perdonare, tutto offrire, tutto sacrificare: il clan degli insonni. Attribuivo del genio al primo venuto le cui palpebre fossero grevi di stanchezza, e non ammiravo affatto colui che poteva dormire, fosse pure una gloria dello Stato, dell'Arte o delle Lettere. Avrei avuto un vero culto per un tiranno che - volendo vendicarsi delle sue notti - avesse proibito il riposo, punito l'oblio, prescritto l'infelicità e la febbre.
E fu allora che mi rivolsi alla filosofia: ma non c'è idea che consoli nel buio, né sistema che resista alle veglie. Le analisi dell'insonnia demoliscono le certezze. Stanco di una simile distruzione, ero giunto al punto di dire a me stesso: basta con le esitazioni, dormire o morire, riconquistare il sonno o scomparire...
Ma questa riconquista non è facile: quando ci si avvicina ad essa ci si accorge di quanto si è stati segnati dalle notti. Sei innamorato? I tuoi slanci saranno contaminati per sempre; uscirai da ogni "estasi" come da un incubo di delizie; agli sguardi della tua compagna troppo immediata opporrai una faccia da criminale; al suo piacere sincero risponderai con le irritazioni di una voluttà avvelenata; alla sua innocenza con una poesia colpevole, giacché tutto diventa per te poesia, ma una poesia della caduta...
Idee cristalline, felice concatenazione di pensieri? Non penserai più: sarà un'irruzione, una lava di concetti, senza solidità e senza coerenza, concetti vomitati, aggressivi, usciti dalle viscere, castighi che la carne infligge a se stessa, dato che lo spirito è vittima degli umori e fuori causa... Soffrirai di tutto, e smisuratamente: le brezze ti sembreranno burrasche; le carezze pugnali; i sorrisi schiaffi; le inezie cataclismi. Il fatto è che le veglie possono cessare, ma la loro luce sopravvive in te: non si vede impunemente nelle tenebre, non se ne raccoglie senza pericolo l'insegnamento; vi sono occhi che non potranno imparare più nulla da sole, e anime afflitte da notti da cui non guariranno mai...