Emil 47



DUALITà

Vi è una volgarità che ci induce ad accettare nel mondo qualsiasi cosa, ma che non è abbastanza potente da farci accettare il mondo stesso. Possiamo quindi sopportare i mali della vita pur ripudiando la Vita, lasciarci trascinare dalle effusioni del desiderio pur rifiutando il Desiderio. Nel consenso dell'esistenza vi è una sorta di bassezza, alla quale sfuggiamo grazie al nostro orgoglio e ai nostri rimpianti, ma soprattutto grazie alla malinconia che ci impedisce di scivolare verso un'affermazione finale, strappata alla nostra viltà. C'è qualche cosa di più spregevole che dire sì al mondo?
Eppure noi moltiplichiamo senza posa il nostro consenso, questa triviale ripetizione, questo giuramento di fedeltà alla vita, rinnegato soltanto da da tutto ciò che in noi rifiuta la volgarità. Possiamo vivere come vivono gli altri e tuttavia nascondere un no più grande del mondo: è l'infinito della malinconia...

(Si possono amare soltanto gli esseri che non superano quel minimo di volgarità indispensabile per vivere. Sarebbe però difficile delimitare quantitativamente tale volagarità, tanto più che nessun atto può farne a meno. Tutti coloro che vengono respinti dalla vita dimostrano di non essere stati sufficientemente sordidi... Chi ha la meglio nel conflitto con i propri parenti esce da un letamaio; e chi è vinto paga una purezza che non ha voluto contaminare. In ogni uomo niente è più reale e genuino della sua volgarità, fonte di tutto ciò che è elementarmente vivo. Ma d'altra parte, più si è inseriti nella vita, più si è spregevoli. Colui che non sparga attorno a sé una vaga irradiazione funebre, e il cui passaggio non lasci una traccia di malinconia proveniente da mondi lontani, appartiene alla sub-zoologia, e più specificamente alla storia umana. La contrapposizione tra la volgarità e la malinconia è così irriducibile che al confronto tutte le altre sembrano invenzioni dello spirito, arbitrarie e amene; anche le più rigide antinomie si attenuano davanti a questa contrapposizione in cui si affrontano - secondo un dosaggio predeterminato - i nostri bassifondi e il nostro fiele sognatore).

Emil 46


I DOGMI INCONSCI

Noi siamo in grado di penetrare l'errore di un essere umano, di svelargli l'inanità dei suoi disegni e delle sue iniziative; ma come strapparlo al suo accanimento nel tempo, poichè nasconde un fanatismo inveterato quanto i suoi istinti, antico quanto i suoi pregiudizi? Noi ci portiamo dentro - come un tesoro irrecusabile - un cumulo di convizioni e di certezze indegne. E anche chi riesce a sbarazzarsene e a vincerle rimane - nel deserto della sua lucidità -

ancora un fanatico: di se stesso, della propria esistenza; ha fatto appassire tutte le sue ossessioni, ma non il terreno in cui sbocciano; ha perduto tutti i suoi punti fermi, ma non la fermezza da cui hanno origine. La vita ha dogmi più immutabili della teologia, poiché ogni esistenza è ancorata a infallibilità che fanno impallidire le elucubrazioni della demenza o della fede. Lo scettico stesso, innamorato dei propri dubbi, si rivela un fanatico dello scetticismo. L'uomo è l'essere dogmatico per eccellenza;e i suoi dogmi sono tanto più profondi perchè non li formula, perchè li ignora e li segue.

Noi tutti crediamo a molte più cose di quanto non pensiamo, alberghiamo intolleranze, coltiviamo prevenzioni sanguinose e, difendendo le nostre idee con mezzi estremi, percorriamo il mondo come fortezze ambulanti e irrefragabili. Ognuno è per se stesso un dogma supremo; nessuna teologia protegge il proprio dio come noi proteggiamo il nostro io; e se assediamo di dubbi questo io e lo mettiamo in discussione, è solo per una falsa eleganza del nostro orgoglio: la causa è vinta in anticipo.

Come sfuggire all'assoluto di se stessi? Si dovrebbe immaginare un essere privo di istinti, che non portasse alcun nome e a cui fosse ignota la propria immagine. Ma nel mondo tutto ci rinvia le nostre fattezze; e persino la notte non è mai tanto fitta da non permettere che ci si specchi in essa. Troppo presenti a noi stessi, la nostra inesistenza prima della nascita e dopo la morte non influisce su di noi se non in quanto idea, e solo per qualche istante; noi sentiamo la febbre della nostra durata come un'eternità che si altera ma che resta inesauribile nel suo principio.

Colui che non si adora deve ancora nascere. Tutto ciò che vive si ama - altrimenti, da dove verrebbe lo spavento che imperversa nelle profondità e sulle superfici della vita? Ognuno rappresenta ai propri occhi il solo punto fermo dell'universo. E se qualcuno muore per un'idea, è perchè essa è la sua idea, e la sua idea è la sua vita.

Non c'è critica della ragione che possa svegliare l'uomo dal suo "sonno dogmatico". Potrà far vacillare le certezze irriflesse che abbondano nella filosofia e sostituire alle affermazioni rigide proposizioni più flessibili, ma come riuscirà, con un procedimento razionale, a scuotere la creatura, assopita sui propri dogmi, senza farla perire?

Emil 45


L'ORRORE IMPRECISO

A ricordarci la nostra fragilità non è l'irruzione di un male definito: avvertimenti più vaghi, ma più inquietanti, hanno il compito di annunciarci l'imminente esclusione del disgusto, di quella sensazione che ci separa fisiologicamente dal mondo, ci svela quanto sia precaria la solidità dei nostri istinti o la consistenza dei nostri vincoli. Quando siamo in buona salute, la nostra carne fa eco alla pulsazione universale e il nostro sangue ne riproduce la cadenza; quando affondiamo nel disgusto, che sta in agguato come un inferno virtuale per afferarci poi all'improvviso, siamo isolati nel tutto come un mostro immaginato da una teratologia della solitudine.

Il punto critico della vitalità non è la malattia - che è lotta -, bensì quell'orrore impreciso che respinge ogni cosa e toglie ai desideri la forza di generare errori freschi. I sensi perdono la linfa, le vene si inaridiscono e gli organi percepiscono soltanto la distanza che li separa dalle loro funzioni. Tutto diventa insipido: cibi e sogni. Non più aromi nella materia né enigmi nei sogni; gastronomia e metafisica diventano entrambi vittime della nostra inappetenza. Restiamo per ore ad attendere altre ore, ad attendere istanti che non fuggano più il tempo, istanti fedeli che ci ristabiliscano nella mediocrità della salute... e nell'oblio dei suoi scogli.

(Cupidigia di spazio, brama inconscia di futuro, la salute ci palesa quanto sia superficiale il livello della vita in se stessa, e quanto l'equilibrio organico sia incompatibile con la profondità interiore.

Lo spirito, nel suo slancio, deriva dalle nostre funzioni compromesse: si invola a mano a mano che il vuoto si dilata nei nostri organi. Quel che vi è di sano in noi è solo ciò per cui non siamo specificamente noi stessi: sono i nostri disgusti a individualizzarci, le nostre tristezze a darci un nome, le nostre perdite a renderci possessori del nostro io. Non siamo noi stessi se non grazie alla somma dei nostri fallimenti) .

 

Emil 44


IN UNA DELLE MANSARDE DELLA TERRA

"Ho sognato primavere lontane, un sole che non illuminasse altro che la schiuma dei flutti e l'oblio della mia nascita, un sole nemico della terra e di quel mare di trovare ovunque soltanto il desiderio di essere altrove. La sorte terrena, chi mai ce l'ha inflitta, incantenandoci a questa materia tetra, lacrima pietrificata contro la quale i nostri pianti - nati dal tempo - si infrangono, mentre essa, immemoriale, è caduta dal primo fremito di Dio?

"Ho detestato i mezzogiorni e le mezzenotti del pianeta, ho vagheggiato un mondo senza clima, senza le ore e senza la paura che le dilata, ho odiato i sospiri dei mortali sotto la massa dei secoli. Dov'è l'istante senza fine e senza desiderio, e quel vuoto primordiale, insensibile ai presentimenti delle cadute e della vita? ho cercato la geografia del Nulla, dei mari sconosciuti, e un altro sole - incontaminato dallo scandalo dei raggi fecondi -, ho cercato il dondolio di un oceano scettico in cui annegassero gli assiomi e le isole, l'immenso liquido narcotico e dolce e stanco del sapere.

"Questa terra è un peccato del Creatore! Ma io non voglio più espiare le colpe degli altri. Voglio guarire dalla mia nascita in un'agonia fuori dei continenti, in un deserto fluido, in un naufragio impersonale."

 

 

Emil 43



IL TRADITORE MODELLO

Poichè la vita può compiersi soltanto nell'individuazione - questo fondamento ultimo della solitudine -, ogni essere è necessariamente solo per il fatto che è un individuo. Eppure non tutti gli individui sono soli a uno stesso modo e con una stessa intensità: ognuno si colloca a un grado diverso nella gerarchia della solitudine; a quello estremo sta il traditore: egli spinge la sua qualità di individuo fino all'esasperazione. In questo senso, Giuda è l'essere più solo nella storia del Cristianesimo, ma non lo è affatto in quella della solitudine. Egli ha soltanto tradito un dio; ha saputo che cosa ha tradito; ha consegnato qualcuno, come tanti altri consegnano qualcosa - una patria o altri pretesti più o meno collettivi. Il tradimento che si rivolge a un oggetto preciso, dovesse pur comportare il disonore o la morte, non è misterioso: si ha sempre l'immagine di ciò che si è voluto distruggere; la colpevolezza è chiara, che la si ammetta o la si neghi. Gli altri vi respingono: e voi vi rassegnate all'ergastolo o alla ghigliottina...
Ma esiste un modo ben più complesso di tradire, senza riferimento immediato, senza rapporto con un oggetto o con una persona: quello di abbandonare tutto senza che si sappia che cosa  rappresenti questo tutto, isolarsi dal proprio ambiente, respingere - con un divorzio metafisico - la sostanza di cui siete fatti, che vi circonda e vi porta.
Chi, e per quale sfida, può affrontare l'esistenza impunemente? Chi, e con quali sforzi, può arrivare all'eliminazione del principio stesso del proprio respiro? Eppure, la volontà di minare il fondamento di tutto ciò che esiste produce un desiderio di efficienza negativa, potente e inefferrabile, come un sentore di rimorso che corrompa la giovane vitalità di una speranza...
Quando si è tradito l'essere, ci si porta dietro soltanto un disagio indefinito, dato che nessuna immagine viene a sostenere con la sua precisione l'oggetto che suscita la sensazione di infamia. Nessuno vi scaglia la pietra; siete cittadini rispettabili come prima; godete degli onori della comunità, della considerazione dei vostri simili; le leggi vi proteggono; siete stimabili come chiunque altro - eppure nessuno vede che state vivendo in anticipo i vostri funerali, e che la morte non può aggiungere niente alla vostra condizione irrimediabilmente definita. Il fatto è che il traditore dell'esistenza non deve render conto ad altri che a se stesso. E a chi mai dovrebbe? Se non screditate né uomini né istituzioni, non correte alcun rischio; nessuna legge difende il Reale, ma tutte vi puniscono per il benché minimo pregiudizio recato alle sue apparenze. Voi avete il diritto di scalzare l'essere stesso, ma non un essere; vi è lecito demolire le basi di ciò che è, ma vi attende la prigionia o la morte al minimo attentato alle forze individuali. Niente garantisce l'Esistenza: non vi è procedura contro i traditori metafisici, contro i Buddha che rifiutano la salvezza, dato che costoro sono giudicati traditori soltanto della propria vita. Eppure, di tutti i malfattori, sono questi i più nocivi: non attaccano i frutti, attaccano la linfa, la linfa stessa dell'universo. La loro punizione, la conoscono soltanto loro...
Può darsi che in ogni traditore vi sia una sete di obbrobio,  e che la sua scelta di un dato modo di tradire dipende dal grado di solitudine a cui egli aspira. Chi non ha mai provato il desiderio di perpetrare un misfatto incomparabile, che lo escluda dal novero degli esseri umani? Chi non ha agognato l'ignominia, allo scopo di recidere per sempre i vincoli che lo legavano agli altri, di subire una condanna senza appello e giungere così alla quiete dell'abisso? E quando si rompe con l'universo, non è forse per la pace di un errore irremissibile? Un Giuda con l'anima di Buddha: quale modello per un'umanità futura e agonizzante!
    
      

Emil 42



AFFATICAMENTO DA SOGNI

Se potessimo conservare l'energia che prodighiamo nel susseguirsi dei sogni fatti nottetempo, la profondità e la sottigliezza dello spirito raggiungerebbero proporzioni insospettabili. L'impalcatura di un incubo esige un dispendio nervoso più estenuante della costruzione teorica molto articolata. Com'è possibile, al risveglio, rimettersi ad allineare idee quando, nell'incoscienza, eravamo coinvolti in spettacoli grotteschi e meravigliosi, e viaggiavamo attraverso le sfere senza l'intralcio dell'impoetica Causalità?

Per ore siamo stati simili a dèi ebbri - e d'un tratto, una volta che gli occhi aperti hanno soppresso l'infinito notturno, dobbiamo tornare a rimuginare, nella mediocrità del giorno, i soliti problemi incolori, senza che nessuno dei fantasmi della notte ci aiuti. L'incantesimo glorioso e nefasto è dunque stato vano; il sonno ci ha esauriti inutilmente. Al risveglio, un altro tipo di prostrazione ci attende; abbiamo avuto appena il tempo di dimenticare quella della sera, ed eccoci alle prese con quella dell'alba. Abbiamo penato ore e ore nell'immobilità orizzontale senza che il cervello approfittasse minimamente della sua assurda attività. Un imbecille che non fosse vittima di questo sperpero, che accumulasse tutte le sue risorse senza dissiparle nei sogni, potrebbe, disponendo di una veglia ideale, scoprire tutte le pieghe più riposte delle menzogne metafisiche o familiarizzarsi con le più inestricabili difficoltà matematiche. Dopo ogni notte siamo più vuoti: i nostri misteri, come i nostri affanni, sono defluiti nei sogni. Sicché il travaglio del sonno non diminuisce soltanto la forza del nostro pensiero ma anche quella dei nostri segreti...

Emil 41



DUPLICE VOLTO DELLA LIBERTà

Benché il problema della libertà sia insolubile, possiamo sempre parlarne, metterci dalla parte della contingenza o della necessità... La nostra indole e i nostri pregiudizi ci facilitano una scelta che scioglie e semplifica il problema senza risolverlo. Mentre nessuna costruzione teorica riesce a farcelo percepire, a farcene sentire la realtà densa e contradditoria, un'intuizione privilegiata ci introduce nel cuore stesso della libertà, nonostante tutti gli argomenti inventati contro di essa. E noi abbiamo paura - abbiamo paura dell'immensità del possibile, non essendo preparati a una rivelazione così grande e così improvvisa, a questo bene pericoloso cui aspiriamo e dinanzi al quale arretriamo. Che cosa faremo, abituati come siamo alle catene e alle leggi, di fronte a un'infinità di iniziative, a un'orgia di risoluzioni? La seduzione dell'arbitrario ci spaventa. Se possiamo intraprendere qualsiasi atto, se non vi sono più limiti all'ispirazione e ai capricci, come evitare di perderci nell'ebbrezza di tanto potere?
La coscienza scossa da questa rivelazione, s'interroga e trasalisce. Chi, in un mondo dove si può disporre di tutto, non viene preso dalla vertigine? L'omicida fa un uso illimitato della propria libertà, e non può resistere all'idea della propria potenza. Ciascuno di noi è in grado di prendere la vita altrui. Se tutti coloro che abbiamo ucciso col pensiero scomparissero davvero, la terra non avrebbe più abitanti. Noi ci portiamo dentro un carnefice reticente, un criminale irrealizzato. E coloro che non hanno il coraggio di confessare a se stessi le proprie inclinazioni omicide, assassinano in sogno, popolano di cadaveri i loro incubi notturni.
Davanti a un tribunale assoluto, solo gli angeli sarebbero assolti. Giacchè non vi è mai stato uomo che non si sia augurato - almeno inconsciamente - la morte di un altro uomo. Ognuno si trascina dietro un cimitero di amici e di nemici; e poco importa che questo cimitero sia relegato negli abissi del cuore o proiettato alla superficie dei desideri.
La libertà, intesa nelle sue implicazioni ultime, pone il problema della nostra vita o di quella degli altri; essa comporta la duplice possibilità di salvarci o di perderci. Ma noi ci sentiamo liberi, sappiamo capire le nostre possibilità e i nostri pericoli solo in modo discontinuo. E proprio questa intermittenza, la rarità di questi momenti spiegano perchè il mondo non è che un mattatoio mediocre e un paradiso fittizio. Dissertare sulla libertà non porta ad alcuna conseguenza, né in bene né in male; ma disponiamo soltanto di attimi per accorgerci che tutto dipende da noi...
La libertà è un principio etico di essenza demoniaca.
 
  

Emil 40


VOLGENDO LE SPALLE AL TEMPO

Ieri, oggi, domani, sono categorie a uso dei servi. Per l'ozioso insediati sontuosamente nella Sconsolatezza e afflitto da ogni istante che scorre, passato, presente, futuro non sono altro che parvenze variabili di uno stesso male, identico nella sostanza, inesorabile nel suo insinuarsi e monotono nel suo persistere. E questo male è coestensivo all'essere, è l'essere stesso.
Fui, sono, sarò sono una questione di grammatica e non di esistenza. Il destino - in quanto carnevale temporale - si presta alla coniugazione ma, una volta che sia stato privato delle sue maschere, si rivela immobile e nudo quanto un epitaffio. Com'è possibile attribuire più importanza al tempo presente che a quello passato o futuro? L'equivoco in cui vivono i servi - e qualsiasi uomo aderisca al tempo è un servo - rappresenta un vero stato di grazia, un oscuramento incantato; e questo equivoco - come un velo soprannaturale - occulta la perdizione alla quale è esposto ogni atto generato dal desiderio. Ma per l'ozioso disingannato, il semplice fatto di vivere, il vivere esente da ogni fare, è una fatica così estenuante che sopportare l'esistenza qual è gli sembra un mestiere ingrato, una carriere sfibrante - e ogni gesto supplementare impraticabile e irrilevante.

 

Emil 39



NON RESISTENZA ALLA NOTTE

All'inizio, crediamo di avanzare verso la luce; poi, stanchi di camminare senza scopo, ci lasciamo scivolare: la terra, sempre meno ferma, non ci sostiene più, si apre. Invano, cercheremmo di proseguire un tragitto soleggiato, le tenebre si dilatano dentro di noi e sotto di noi. Nessun chiarore può illuminarci mentre scivoliamo: l'abisso ci chiama e noi lo ascoltiamo. Sopra rimane ancora tutto ciò che volevamo essere, tutto ciò che non ha avuto il potere di sollevarci più in alto. E noi, un tempo amanti delle sommità, poi delusi da esse, finiamo con l'amare la nostra caduta, ci affrettiamo a compierla, strumenti di un'esecuzione strana, affascinati dall'illusione di toccare i confini delle tenebre, le frontiere del nostro destino notturno. Una volta che la paura del vuoto si sia trasformata in voluttà, quale fortuna muovere in senso contrario al sole! Infinito alla rovescia, dio che comincia sotto i nostri talloni, estasi dinnanzi alle crepe dell'essere e brama di un'aureole nera, il Vuoto è un sogno capovolto in cui ci inabissiamo.

Se la vertigine diventa la nostra legge, portiamo un nimbo sotterraneo, una corona nella nostra caduta. Detronizzati da questo mondo, portiamone via lo scettro per onorare la notte di un fasto nuovo.

(Eppure questa caduta - a parte i pochi istanti di tregua - è ben lungi dall'essere solenne e lirica. Di solito ci impantaniamo in un fango notturno, in un'oscurità non meno mediocre della luce...La vita è soltanto un torpore nel chiaroscuro, un'inerzia fra luci e ombre, una caricatura di quel sole interiore che ci fa credere indebitamente alla nostra eccellenza sul resto della materia. Niente prova che siamo qualcosa di più che niente. Per poter sentire costantemente quella dilatazione in cui rivaleggiamo con gli dèi, in cui le nostre febbri trionfano sulle nostre paure, dovremmo mantenerci a una temperatura talmente elevata che ci stroncherebbe in pochi giorni. Ma i nostri sono lampi di un istante; le cadute sono invece la regola. La vita è ciò che si decompone a ogni momento; è una monotona perdita di luce, un insulso dissolversi nella notte, senza scettri, senza aureole, senza nimbi).

Emil 38



SCAPPATOIE

Traggono le ultime conseguenze soltanto coloro che vivono fuori dall'arte. Il suicidio, la santità, il vizio sono altrettante forme della mancanza di talento. Diretta o camuffata, la confessione attraverso la parola, il suono o il colore, blocca l'agglomerazione delle forze interiori e le indebolisce respingendole verso il mondo esterno. è una diminuzione salutare che fa di qualsiasi atto creativo un elemento di fuga. Ma colui che accumula energie vive sotto pressione, da schiavo dei propri eccessi; nulla gli impedisce di naufragare nell'assoluto...
La vera esistenza tragica non si trova quasi mai fra coloro che sanno maneggiare le potenze segrete di cui sono logorati; a furia di depauperare la loro anima attraverso la loro opera, da dove potrebbero attingere l'energia per giungere ad atti estremi? Quel dato eroe si è realizzato in un modo di morire stupendo perchè non possedeva la facoltà di spegnersi progressivamente dentro ai versi. Ogni eroismo espia - attraverso il genio del cuore - una mancanza di talento, ogni eroe è un essere senza talento. Ed è questa carenza a proiettarlo avanti e ad arrichirlo, mentre coloro che hanno impoverito con la creazione il loro patrimonio di ineffabile sono respinti, come esistenze, in secondo piano, sebbene il loro spirito possa elevarsi al di sopra di tutti gli altri. C'è che si estromette dal rango dei suoi simili ricorrendo al convento o ad altri artifici - alla morfina, all'onanismo, o all'alcool -, quando una forma di espressione avrebbe invece potuto salvarlo. Ma poichè è sempre presente a se stesso, perfettamente padrone delle sue riserve e delle sue delusioni, poiché porta il peso della sua vita senza possibilità di alleggerirlo con i pretesti dell'arte, egli può solo, assorbito com'è da se stesso, essere totale nei gesti e nelle risoluzioni, può solo giungere a una conclusione che lo coinvolga interamente; non sa assaporare gli eccessi: vi affoga; e affoga per davvero nel vizio, in Dio e nel proprio sangue, mentre le viltà dell'espressione lo avrebbero fatto arretrare dinanzi al supremo. Colui che si esprime non agisce contro se stesso; conosce soltanto la tentazione delle conseguenze estreme. E disertore non è chi le trae bensì chi si dissipa e si divulga nel timore di perdersi e di crollare una volta lasciato a se stesso.
   

Emil 37


RITORNO AGLI ELEMENTI

Se dai presocratici in poi la filosofia non avesse fatto alcun progresso non vi sarebbe motivo di dolersene. Stanchi della farragine dei concetti, finiamo con l'accorgerci che la nostra vita continua ad agitarsi negli elementi di cui essi ritenevano che fosse costituito il mondo; che a condizionarci sono la terra, l'acqua, il fuoco e l'aria; che questa fisica rudimentale rivela lo sfondo delle nostre prove e il principio dei nostri tormenti. Per aver complicato questi pochi dati elementari, abbiamo perduto - affascinati dallo scenario e dall'edificio delle nostre teorie - la capacità di comprendere il Destino, che pure è rimasto immutato dai primi giorni del mondo. La nostra esistenza continua a essere sostanzialmente una lotta contro gli elementi di sempre, lotta per nulla addolcita dal nostro sapere. Gli eroi di ogni tempo non sono meno infelici di quelli di Omero e, se sono diventati personaggi, è perchè hanno perso in ardimento e in grandezza. Come potrebbero i risultati delle scienze mutare la posizione metafisica dell'uomo? E che cosa sono mai i sondaggi della materia, le indicazioni e i frutti dell'analisi a paragone con gli inni vedici e con quelle tristezze degli albori storici che si insinuano nella poesia anonima?

Mentre le decadenze più faconde non ci ragguagliano sull'infelicità più di quanto non facciano i balbettii di un pastore, e mentre in definitiva c'è più saggezza nel ghigno di un idiota che nella ricerca dei laboratori (non è una follia inseguire la verità per le vie del tempo - o nei libri?), Lao-tzu, che leggeva pochissimo, non è più ingenuo di noi che abbiamo letto tutto. La profondità è indipendente dal sapere. Noi trasferiamo su altri piani le rivelazioni dei tempi passati, oppure sfruttiamo intuizioni originali attraverso le ultime acquisizioni del pensiero.

Così, Hegel è un Eraclito che ha letto Kant; e la nostra Noia, un eleatismo affettivo, la finzione della diversità smascherata e rivelata al cuore.

Emil 36



DAL SANTO AL CINICO

La beffa ha abbassato al rango di pretesto ogni cosa, tranne il Sole e la Speranza, tranne le due condizioni della vita: l'astro del mondo e l'astro del cuore, l'uno splendente, l'altro invisibile. Uno scheletro che si riscaldasse al sole e che sperasse sarebbe più vigoroso di un Ercole disperato e stanco della luce; un essere totalmente permeabile alla Speranza sarebbe più potente di Dio e più vivo della Vita. Macbeth, "aweary of the sun", è l'ultima delle creature, dato che la vera morte non è la putredine, ma il disgusto per qualsiasi irradiazione, la ripulsa per tutto ciò che è germe, per tutto ciò che sboccia sotto il calore dell'illusione.
L'uomo ha profanato le cose che nascono e muoiono sotto il sole, ma non il sole; le cose che nascono e muoiono nella speranza, ma non la speranza. Non avendo avuto il coraggio di andare oltre, egli ha imposto dei limiti al proprio cinismo. Ma un cinico che si proclami coerente di fatto lo è solo a parole; i suoi gesti lo rendono il più contraddittorio degli esseri: nessuno potrebbe vivere dopo aver decimato le proprie superstizioni. Per arrivare al cinismo totale occorrerebbe uno sforzo inverso a quello della santità, e almeno altrettanto considerevole; oppure immaginare un santo che, giunto all'apice della purificazione, scoprisse la vanità della pena che si è dato - e la ridicolaggine di Dio...
Un simile mostro di chiaroveggenza cambierebbe i dati della vita: avrebbe la forza e l'autorità di mettere in discussione le condizioni stesse della propria esistenza; non rischierebbe più di contraddirsi; nessuna debolezza umana smorzerebbe più il suo ardire; e avendo perduto il rispetto religioso che, nostro malgrado, portiamo alle ultime illusioni, si farebbe gioco del proprio cuore e del sole...
  

Emil 35



ADDIO ALLA FILOSOFIA

Mi sono allontanato dalla filosofia quando mi è diventato impossibile scoprire in Kant qualche debolezza umana, qualche accento vero di tristezza; in Kant e in tutti i filosofi. Rispetto alla musica, alla mistica e alla poesia, l'attività filosofica discende da una linfa svigorita e da una profondità sospetta, che non hanno attrattiva se non per i timidi e i tiepidi. D'altronde, la filosofia - inquietudine impersonale, riparo presso idee anemiche - è la risorsa di tutti coloro che rifuggono dall'esuberanza corruttrice della vita. Quasi tutti i filosofi sono finiti bene: questo è l'argomento supremo contro la filosofia. La fine di Socrate non ha niente di tragico: è un malinteso, la fine di un pedagogo - e lo stesso Nietzsche è sprofondato nella follia in quanto poeta e visionario : ha espiato le sue estasi, non i suoi ragionamenti.
Non si può eludere l'esistenza con delle spiegazioni, si può solo subirla, amarla o detestarla, adorarla e temerla, in quell'alternanza di felicità e di orrore che esprime il ritmo stesso dell'essere, le sue oscillazioni e le sue dissonanze, le sue veemenze amare e allegre.
Chi di noi non esposto, per imprevisti o per necessità, a una disfatta clamorosa, e chi, allora, non leva le mani in preghiera per poi lasciarle cadere ancora più vuote delle risposte che di dà la filosofia? Parrebbe quasi che la missione di questa consista nel proteggerci finchè la sventatezza della sorte ci lascia procedere al di qua dello sgomento e nell'abbandonarci non appena siamo costretti ad affondarvi. E come potrebbe essere diversamente, se si pensa quanto poco le sofferenze dell'umanità siano entrate nella filosofia? L'esercizio filosofico non è fecondo; è solo onorevole. Si è filosofi sempre impunemente: un mestiere senza destino che riempie di pensieri voluminosi le ore neutre e vacanti, le ore refrattarie al Vecchio Testamento, a Bach e a Shakespeare. E si sono mai materializzati, questi pensieri, in una sola pagina equivalente a un'esclamazione di Giobbe, a un terrore di Macbeth o alla magnificenza di una cantata? Non si discute l'universo; lo si esprime. E la filosofia non lo esprime. I veri problemi non iniziano se non dopo averla percorsa o esaurita, dopo l'ultimo capitolo di un immenso tomo che metta il punto finale in segno di rinuncia davanti all'Ignoto, nel quale si radica ogni nostro istante, e contro cui dobbiamo lottare perchè è naturalmente più immediato, più importante del pane quotidiano. Qui il filosofo ci abbandona: nemico del disastro, è sensato come la ragione e prudente quanto lei. E noi rimaniamo in compagnia di un appestato antico, di un poeta esperto in tutti i deliri e di un musicista la cui sublimità trascende la sfera del cuore. Non cominciamo a vivere realmente se non una volta giunti in fondo alla filosofia, sulla sua rovina, quando abbiamo capito sia la sua terribile insignificanza sia l'inutilità del farvi ricorso, in quanto non è di alcun aiuto.
(I grandi sistemi non sono in fondo che brillanti tautologie. Qual'è il vantaggio di sapere che la natura dell'essere consiste nella "volontà di vivere", nell'"idea" o nella fantasia di Dio o della Chimica? Semplice proliferazione di termini, sottili spostamenti di significato. Ciò che ''è'' resiste alla presa delle parole e l'esperienza intima non ce ne svela niente al di là dell'istante privilegiato e inesprimibile. D'altronde, l'essere stesso non è che una pretesa del Nulla.
Si danno definizioni soltanto per disperazione. Ci vuole una formula; anzi ce ne vogliono molte, non fosse che per fornire una giustificazione allo spirito e una facciata al nulla. Né il concetto né l'estasi sono operanti. Quando la musica ci immerge fin nell'"intimo" dell'essere, noi risaliamo rapidamente alla superficie: gli effetti dell'illusione svaniscono e il sapere si rivela vuoto. Le cose che tocchiamo e quelle che concepiamo sono improbabili quanto i nostri sensi e la nostra ragione; noi siamo sicuri soltanto nel nostro universo verbale, maneggiabile a piacimento - e inefficace. L'essere è muto e lo spirito è ciarliero. Questo si chiama conoscere. L'originalità dei filosofi si riduce a inventare termini. Poichè non vi sono che tre o quattro atteggiamenti davanti al mondo - e più o meno altrettanti modi di morire -, le sfumature che li diversificano e li moltiplicano dipendono solo dalla scelta dei vocaboli, sprovvisti di qualsiasi portata metafisica. Siamo inghiottiti da un universo pleonastico, in cui gli interrogativi e le risposte si equivalgono.)
     

Emil 34



EQUILIBRIO DEL MONDO

L'apparente simmetria delle gioie e dei dolori non deriva affatto dalla loro equa distribuzione: è dovuta all'ingiustizia che colpisce certi individui e li costringe così a compensare con il loro abbattimento l'incuranza degli altri. Subire le conseguenze dei propri atti o esserne preservati, questa è la sorte degli uomini. Tale discriminazione si attua senza alcun criterio: è una fatalità, una divisione assurda, una selezione bislacca. Nessuno può evitare la condanna alla felicità o all'infelicità, né sottrarsi alla sentenza originaria, al tribunale funambolesco le cui decisioni si stendono tra lo spermatozoo e la tomba.
Vi sono quelli che pagano tutte le loro gioie, che espiano tutti i loro piaceri, che devono rendere conto di ogni loro oblio: non saranno mai in debito di un solo istante di felicità. Ogni loro brivido di voluttà è stato coronato da mille amarezze, come se non avessero alcun diritto alle dolcezze consentite, come se i loro abbandoni mettessero in pericolo l'equilibrio bestiale del mondo... Furono felici contemplando un paesaggio? Lo rimpiangeranno in imminenti affani. Furono arditi nei progetti e nei sogni? Si risveglieranno presto, come da un'utopia, redarguiti da sofferenze fin troppo positive.
Vi è dunque chi viene sacrificato e paga l'incoscienza degli altri, chi espia non soltanto la propria felicità ma anche quella di sconosciuti. In questo modo si ristabilisce l'equilibrio, la proporzione delle gioie e delle pene diventa armoniosa. Se un oscuro principio universale ha decretato che voi apparteniate all'ordine delle vittime, calpesterete per tutta la vita quel minuscolo lembo di paradiso che celavate in voi, e quel po' di slancio che traspariva dal vostro sguardo e dai vostri sogni si contaminerà di fronte al'impurità del tempo, della materia e degli uomini. Come piedistallo avrete un letamaio e come tribuna un armamentario di tortura. Non sarete degni che di una gloria lebbrosa e di una corona di sputi. Cercare di tener dietro a coloro cui tutto è dovuto, per i quali tutte le strade sono libere? Ma la polvere e la cenere stesse si leveranno a sbarrarvi gli sbocchi del tempo e le vie d'uscita del sogno. Qualunque sia la direzione che prenderete, andrete a impantanarvi, le vostre voci grideranno soltanto gli inni della melma e le vostre teste chine sul cuore, dove non alberga che la pietà di voi stessi, saranno appena sfiorate dal respiro dei fortunati, trastulli benedetti di un'ironia senza nome, e non più colpevoli di voi.
     

Emil 33



IMMUNITà  DALLA RINUNCIA

Tutto ciò che attiene all'eternità cade inevitabilmente nel luogo comune. Il mondo finisce con l'accettare qualsiasi rivelazione e si rassegna a qualsiasi brivido, purchè se ne sia trovata la formula. L'idea della futilità universale - più dannosa di tutti i flagelli - si è degradata al rango di evidenza: tutti la ammettono e nessuno vi si conforma. Lo spavento di una verità definitiva è stato domato; una volta divenuto ritornello, gli uomini non ci pensano più, perchè hanno imparato a memoria una cosa che, anche solo intravista, dovrebbe trascinarli o verso l'abisso o verso la salvezza. La visione della nullità del Tempo ha fatto nascere i santi e i poeti, e la disperazione di qualche isolato, invaghito di anatemi...
Questa visione non è estranea alle folle: esse dicono continuamente "a che serve?", "che cosa può importare?", "si vedrà di peggio", "più le cose cambiano e più sono le stesse", eppure non accade nulla, non interviene nulla: non un santo, non un poeta di più... Se le folle si uniformassero a una sola di queste solfe, il volto del mondo ne sarebbe trasformato. Ma l'eternità - nata da un pensiero antivitale - non può essere un riflesso umano senza pregiudicare l'esercizio degli atti: essa diventa luogo comune perchè si possa dimenticarla attraverso una ripetizione meccanica. La santità è un'avventura come la poesia. Gli uomini dicono: "Tutto passa" - ma quanti afferrano la portata di questa terrificante banalità? Quanti fuggono la vita, la cantano o la piangono? Chi non è profondamente convinto che tutto è vano? Ma chi osa comportarsi di conseguenza? L'uomo che abbia una vocazione metafisica è più raro di un mostro - eppure ogni uomo contiene virtualmente gli elementi di tale vocazione. A un principe indù è bastato vedere un infermo, un vecchio e un morto per capire tutto; anche noi li vediamo, ma non capiamo niente, giacchè niente cambia nella nostra vita. Non possiamo rinunciare ad alcunchè; eppure le evidenze della vanità sono a portata di mano. Malati di speranza, continuiamo ad aspettare; e la vita non è che l'attesa divenuta ipostasi. Noi aspettiamo tutto - anche il Nulla - pur di non essere ridotti a una sospensione eterna, a una condizione di divinità neutra o di cadavere. Così, il cuore che si è fatto un assioma dell'Irreparabile spera ancora che esso gli riservi delle sorprese. L'umanità vive amorosamente negli avvenimenti che la negano...
         

Emil 32



IL LUTTO INDAFFARATO

Tutte le verità sono contro di noi. Ma noi continuiamo a vivere, perchè le accettiamo in quanto tali, perchè ci rifiutiamo di trarne le conseguenze. Dov'è colui che abbia trasferito - nella sua condotta- una sola conclusione dell'inseguimento dell'astronomia, della biologia, e che abbia deciso di non alzarsi più dal letto per ribellione o per umiltà di fronte alle distanze siderali o ai fenomeni naturali? Si diede mai orgoglio vinto dall'evidenza della nostra irrealtà? E chi fu mai tanto audace da non fare più niente dato che ogni atto è ridicolo nell'infinito? Le scienze provano il nostro nulla. Ma chi ne ha tratto l'ultima lezione? Chi è divenuto eroe della pigrizia totale? Nessuno incrocia le braccia: siamo più operosi delle formiche e delle api. Però se una formica, se un'ape - per il miracolo di un'idea o per fare una tentazione di singolarità - si isolasse nel formicaio o nello sciame, se contemplasse dall'esterno lo spettacolo delle sue pene, si ostinerebbe ancora nella sua fatica?
Soltanto l'animale razionale non è riuscito a imparare niente dalla sua filosofia: egli si tiene in disparte - e nondimeno persevera negli stessi errori efficaci in apparenza e nulli in realtà. Vista da fuori, da un qualsiasi punto archimedico, la vita - con tutte le sue convinzioni - non è più possibile, e nemmeno concepibile. Non si può agire se non contro la verità. L'uomo ricomincia ogni giorno, nonostante tutto ciò che sa, contro tutto ciò che sa. E ha spinto questo equivoco fino al vizio. La chiaroveggenza è in lutto, ma -strano contagio - questo lutto stesso è attivo; così, siamo trascinati in un corteo funebre fino al Giudizio Universale; così, dell'ultimo riposo stesso, del silenzio finale della storia, abbiamo fatto un'attività: è la messinscena dell'agonia, il bisogno di dinamismo perfino nei rantoli...

(Le civiltà affannate si esauriscono prima di quelle che si adagiano nell'eternità. La Cina, che prospera per millenni nel fiore della sua vecchiaia, è l'unica a proporre un esempio da seguire; ed è anche l'unica che sia giunta ormai da un pezzo a una saggezza raffinata, superiore alla filosofia: il taoismo supera tutto ciò che lo spirito ha concepito sul piano del distacco. Noi contiamo per generazioni: la maledizione delle civiltà soltanto secolari è di aver perduto, nella loro cadenza precipitosa, la coscienza intemporale.
Con ogni evidenza, noi siamo al mondo per non fare nulla: ma, invece di portare con noncuranza la nostra putredine, esaliamo sudore e ci affanniamo nell'aria fetida. Tutta la Storia è in putrefazione; i suoi miasmi avanzano verso il futuro: noi corriamo loro incontro, non fosse altro che per la febbre insita in ogni decomposizione.
è troppo tardi perchè l'umanità si emancipi dall'illusione dell'atto, soprattutto è troppo tardi perchè si innalzi alla santità dell'ozio).

Emil 31



CERTE MATTINE

Rimpianto di non essere Atlante, di non poter scuotere le spalle per assistere al crollo di questa ridicola materia...La rabbia segue il cammino inverso della cosmogonia. Per quali misteri certe mattine ci svegliamo con la smania di demolire ogni cosa, viva o inerte che sia? Quando il diavolo annega nelle nostre vene, quando le nostre idee sono convulse e i nostri desideri fendono la luce, gli elementi si incendiano e bruciano, mentre la loro cenere ci scorre fra le dita. Quali incubi abbiamo alimentato durante la notte, per alzarci nemici del sole? Dobbiamo liquidarci da soli per farla finita con tutto? Quale complicità, quali legami protraggono la nostra intimità con il tempo? La vita sarebbe intollerabile senza le forze che la negano. Se disponessimo di una via di scampo, dell'idea di una fuga, ci sarebbe facile sopprimerci e, al colmo del delirio, espettorare questo universo.
... O altrimenti pregare e aspettare altre mattine.

(Lo scrivere sarebbe un atto insulso e superfluo se si potesse piangere a piacimento, e imitare i bambini e le donne in preda alla rabbia... Nella pasta di cui siamo fatti, nella sua più profonda impurità, è insito un principio di amarezza che soltanto le lacrime leniscono. Se ogni volta che i dispiaceri ci assalgono avessimo la possibilità di liberarcene con il pianto, le malattie vaghe e la poesia scomparirebbero. Ma una reticenza innata, aggravata dall'educazione, o un funzionamento difettoso delle ghiandole lacrimali ci condannano al martirio degli occhi asciutti. E poi, le urla, le tempeste di imprecazioni, l'automacerazione e le unghie piantate nella carne, con la consolazione di uno spettacolo di sangue, non figurano più tra i nostri procedimenti terapeutici. Ne consegue che siamo tutti malati, che a ciascuno di noi occorrerebbe un Sahara per urlarvi a volontà, o le rive di un mare elegiaco e impetuoso per mescolare ai suoi lamenti sfrenati  i nostri più sfrenati ancora. I parossismi esigono la cornice di un sublime caricaturale, di un infinito apoplettico, la visione di un'impiccagione in cui fosse il firmamento a fungere da patibolo per le nostre carcasse e per gli elementi).  

Emil 30



LA GAMMA DEL VUOTO

Ho visto Tizio perseguire un certo scopo e Caio perseguirne un altro; ho visto gli uomini attratti da oggetti disparati, affascinati da progetti e da sogni vili e indefinibili insieme...
Analizzando ciascun caso isolatamente per penetrare le ragioni di tanto dispendio di fervore, ho capito l'insensatezza di ogni gesto e di ogni sforzo. Esiste una sola vita che non sia impregnata degli errori che fanno vivere? Esiste una sola vita chiara, trasparente, senza radici umilianti, senza motivi inventati, senza i miti sorti dai desideri? Dov'è l'atto immune da ogni forma di tornaconto: sole che aborre l'incandescenza, angelo in un universo senza fede, o verme ozioso in un mondo abbandonato all'immortalità?
Ho voluto difendermi contro tutti gli uomini, reagire contro la loro follia, svelarne la fonte; ho ascoltato e ho visto - e ho avuto paura: paura di agire per gli stessi motivi o per qualsiasi motivo, paura di credere agli stessi fantasmi o a qualsiasi altro fantasma, paura di lasciarmi trasportare dalle stesse ebbrezze o da qualsiasi altra ebbrezza; paura insomma di delirare in comune e di spirare in un ammasso di estasi.Sapevo che, separandomi da un essere umano, venivo privato di un errore, depauperato dell'illusione che gli lasciavo...Le sue parole febbrili  lo rivelavano prigioniero di un'evidenza assoluta per lui e irrisoria per me: al contatto della sua assurdità, io mi spogliavo della mia...A chi dare la nostra adesione senza avere la sensazione di sbagliare e senza vergognarcene? Giustificabile è soltanto colui che pratica, in piena coscienza, l'irragionevolezza necessaria a ogni atto e che non adorna di sogni la finzione a cui si abbandona, così come ammirevole è soltanto un eroe che muore senza convinzione, tanto più pronto al sacrificio perchè ne ha intravisto il fondamento. Quanti agli amanti, sarebbero odiosi se nel bel mezzo delle loro moine non fossero sfiorati dal presentimento della morte. è inquietante pensare che ci portiamo nella tomba il nostro segreto - la nostra illusione -; che non siamo sopravvissuti all'errore misterioso che vivificava il nostro respiro; che, eccetto le prostitute e gli scettici, tutti affondano nella menzogna perchè non intuiscono che, nella loro insignificanza, la voluttà e le verità si equivalgono.
Ho voluto sopprimere in me le ragioni invocate dagli uomini per esistere e per agire. Ho voluto diventare ineffabilmente normale - ed eccomi qui nell'ebetudine, sullo stesso piano degli idioti e vuoto come loro.
 

Emil 29



LO SCRUPOLO DELLA DECENZA

Sotto il pungolo del dolore, la carne si risveglia; materia lucida e lirica, essa canta la propria dissoluzione. Finchè era indistinguibile dalla natura, riposava nell'oblio degli elementi: l'io non si era ancora impadronito di lei. La materia che soffre si emancipa dalla gravitazione, non è più solidale con il resto dell'universo, si isola dal tutto assopito; giacché il dolore, agente di separazione, principio attivo di individuazione, nega le delizie di un destino statistico.
L'essere davvero solo non è quello abbandonato dagli uomini, bensì quello che soffre in mezzo a loro, che si porta dietro il suo deserto nelle fiere e sfoggia i suoi talenti di lebbroso sorridente, di commediante dell'irreparabile. I grandi solitari di una volta erano felici, non conoscevano la duplicità, non avevano nulla da nascondere: si intrattenevano soltanto con la propria solitudine...
Di tutti i legami che ci tengono attaccati alle cose, non ve n'è uno solo che non si allenti e non si spezzi, sotto l'effetto della sofferenza, la quale ci libera da tutto, tranne che dall'ossessione di noi stessi e dalla sensazione di essere irrevocabilmente individui. è la solitudine ipostatizzata in essenza. Come comunicare con gli altri, quindi, se non attraverso l'illusionismo della menzogna? Se non fossimo saltimbanchi, se non avessimo appreso gli artifici di una ciarlataneria sapiente, se insomma fossimo sinceri fino all'impudenza o alla tragedia - i nostri mondi sotterranei vomiterebbero oceani di fiele, e ci faremmo un punto d'onore di scomparirvi dentro: sfuggiremmo così alla sconvenienza di tanto grottesco e di tanto sublime. A un certo grado di infelicità, ogni franchezza diventa indecente. Giobbe si è fermato in tempo: un altro passo, e né Dio né i suoi amici gli avrebbero più risposto.
(Si è "civilizzati" nella misura in cui non si esibisce la propria lebbra e si porta rispetto all'elegante falsità costruita dai secoli. Nessuno ha il diritto di piegarsi sotto il peso delle proprie ore... In ogni uomo si cela una possibilità di apocalisse, eppure ogni uomoo si adopera per livellare i propri abissi. Se ognuno desse via libera alla sua solitudine, Dio dovrebbe ricreare il mondo, la cui esistenza dipende in tutto e per tutto dalla nostra educazione e dalla paura che abbiamo di noi stessi... Il caos significa respingere tutto ciò che si è appreso, significa essere se stessi...)
   

Emil 28



GLI ANGELI REAZIONARI

Non è facile formulare un giudizio sulla ribellione del meno filosofo degli angeli, senza mischiarvi simpatia, stupore e riprovazione. L'ingiustizia governa l'universo. Tutto ciò che vi si costituisce, tutto ciò che vi si disfa porta l'impronta di una fragilità immonda, come se la materia fosse frutto di uno scandalo in seno al nulla. Ciascun essere si nutre dell'agonia di un altro essere; gli istanti si precipitano come vampiri sull'anemia del tempo - il mondo è un ricettacolo di singhiozzi... In questo mattatoio, imcrociare le braccia o sguainare la spada sono gesti egualmente vani. Nessun furore superbo riuscirebbe a scuotere lo spazio né a nobilitare gli animi.Trionfi e fallimenti si sussegguono secondo una legge sconosciuta cha ha nome destino, nome a cui ricorriamo quando, filosoficamente disarmati, il nostro soggiorno quaggiù o in qualsiasi altro luogo ci pare senza soluzione e quasi una maledizione da subire, irragionevole e immeritata. Destino - parola di elezione nella terminologia dei vinti... Alla ricerca affannosa di una nomenclatura per l'Irrimediabile, cerchiamo sollievo nell'invenzione verbale, in chiarezze sospese sopra i nostri disastri. Le parole sono caritatevoli: la loro fragile realtà ci inganna e ci consola...
Sicchè il "destino", che non può volere nulla, è quello che ha voluto ciò che ci accade... Invaghiti dell'Irrazionale come unico modo di spiegazione, noi lo guardiamo caricare la bilancia della nostra sorte, che pesa soltanto elementi negativi, di un unico genere. Da dove trarre l'orgogli per provocare le forze che hanno così decretato e, per di più, sono irresponsabili di tale decreto? Contro chi condurre la lotta, o dove dirigere l'assalto quando l'ingiustizia assedia l'aria dei nostri polmoni, lo spazio dei nostri pensieri, il silenzio e lo stupore degli astri? La nostra rivolta è concepita altrettanto male del mondo che la suscita. Come farsi un dovere di riparare i torti, quando, simili a Don Chisciotte sul letto di morte - al colmo della follia, estenuati -, abbiamo perduto la forza e l'illusione necessarie per affrontare le strade, i combattimenti e le sconfitte? E come ritrovare la freschezza dell'angelo sedizioso, lui che, ancora all'inizio del tempo, ignorava questa saggezza pestilenziale in cui i nostri slanci soffocano? Dove attingeremmo estro e tracotanza sufficienti a biasimare il gregge degli altri angeli, allorché quaggiù seguire il loro collega significa precipitare ancora più in basso, allorché l'ingiustizia degli uomini imita quella di Dio e ogni ribellione oppone l'anima all'infinito e la infrange contro di esso? Gli angeli anonimi - appiattati sotto le loro ali senza età, eternamente vincitori e vinti in Dio, insensibili alle curiosità nefaste, sognatori paralleli ai lutti terrestri - chi mai oserebbe scagliare loro la pietra, e chi oserebbe, per sfida, dividere il loro sonno? La rivolta, fierezza del decadimento, non trae la sua nobiltà se non dalla sua inutilità; le sofferenze la destano e poi l'abbandonano; la frenesia la esalta e la delusione la disconosce... Essa non potrebbe avere senso in un universo non valevole...
(Nel mondo niente è al proprio posto, a cominciare dal mondo stesso. Non è allora il caso di stupirsi davanti allo spettacolo dell'ingiustizia umana. è egualmente vano rifiutare o accettare l'ordine sociale: ci tocca subirne i mutamenti in meglio o in peggio con un conformismo disperato, così come subiamo la nascita, l'amore, il clima e la morte. La decomposizione presiede alle leggi della vita: più vicini alla nostra polvere di quanto non lo siano alla loro gli oggetti inanimati, noi soccombiamo prima di questi e corriamo verso il nostro destino sotto lo sguardo delle stelle apparentemente indistruttibili. Ma anch'esse andranno in polvere in un universo che solo il nostro cuore prende sul serio per poi espiare nei tormenti la sua mancanza di ironia... Nessuno può correggere l'ingiustizia di Dio e degli uomini: ogni atto non è che un caso particolare, in apparenza organizzato, del Caos originario. Siamo trascinati da un turbine che risale agli albori dei tempi; e se questo turbine ha assunto le sembianze di ordine, è solo per travolgerci meglio...)
    

Emil 27




RISORSE DELL'AUTODISTRUZIONE

Nati in una prigione, con fardelli sulle spalle e sui pensieri, non arriveremmo al termine di un solo giorno se la possibilità di farla finita non ci incitasse a ricominciare il giorno dopo... I ceppi e l'aria irrespirabile di questo mondo ci tolgono tutto, tranne la libertà di ucciderci; e questa libertà ci infonde una forza e un orgoglio tali da trionfare sui pesi che ci opprimono.
Poter disporre totalmente di se stessi e rifiutarsi di farlo: c'è forse dono più misterioso? La consolazione attraverso il suicidio possibile allarga infinitamente lo spazio di questa dimora in cui soffochiamo. L'idea di sopprimerci, la molteplicità dei mezzi per attuarla, la loro facilità e la loro vicinanza ci rallegrano e ci spaventano; giacché non vi è nulla di più semplice e di più terribile dell'atto con cui decidiamo irrevocabilmente di noi stessi. In un solo istante sopprimiamo tutti gli istanti; Dio stesso non sarebbe in grado di farlo. Ma, demoni fanfaroni, noi procrastiniamo la nostra fine: come potremmo rinunciare al dispiegarsi della nostra libertà, al gioco della nostra superbia?...
Colui che non ha mai concepito il proprio annullamento, che non ha mai pensato di ricorrere alla corda, alla pallottola, al veleno o al mare, è un forzato spregevole o un verme che striscia sulla carogna cosmica.Il mondo può prenderci tutto, può proibirci tutto, ma nessuno ha il potere di impedire che ci annulliamo. Tutti gli strumenti ci aiutano, tutti i nostri istinti vi si oppongono. Questa contraddizione accende nello spirito un conflitto senza via d'uscita. Quando cominciamo a riflettere sulla vita, a scoprirvi una vacuità infinita, i nostri istinti si sono già eretti a guide e fattori dei nostri atti; essi raffrenano lo slancio della nostra ispirazione e la scioltezza del nostro distacco. Se al momento della nostra nascita fossimo consapevoli quanto lo siamo sul finire dell'adolescenza, è assai probabile che a cinque anni il suicidio sarebbe un fenomeno abituale o anche una questione di onore.
Ma ci svegliamo troppo tardi:abbiamo contro di noi gli anni fecondati unicamente dalla presenza degli istinti, i quali non possono che essere stupefatti delle conclusioni a cui conducono le nostre meditazioni e le nostre delusioni. E quelli reagiscono: noi però, avendo acquistato coscienza della nostra libertà, abbiamo in serbo una risoluzione tanto più allettante in quanto non la mettiamo a profitto. Essa ci fa sopportare i giorni, e ancor più, le notti; non siamo più poveri, né schiacciati dall'avversità: disponiamo di risorse supreme. E quand'anche non le sfruttassimo e finissimo con lo spirare nel mondo tradizionale, avremmo pur sempre posseduto un tesoro dei nostri abbandoni: vi è forse ricchezza maggiore del suicidio che ognuno porta in sé?
Se le religioni ci hanno proibito di morire per mano nostra è perchè vedevano in questo atto un esempio di insubordinazione che umiliava i templi e gli dèi. Non so più quale concilio di Orléans considerava il suicidio un peccato più grave dell'assassinio, perchè l'assassino può sempre pentirsi, salvarsi, mentre colui che si è tolto la vita ha varcato i confini della salvezza. Ma l'atto di uccidersi non parte forse da una formula radicale di salvezza? E il nulla non vale forse quanto l'eternità? Soltanto l'essere non ha bisogno di fare guerra all'universo; è a se stesso che invia l'ultimatum. E nemmeno aspira a essere per sempre, se in un atto incomparabile è stato assolutamente se stesso.Almeno, avrà raggiunto una pienezza di libertà inaccessibile a colui che la cerca indefinitamente nel futuro...
Nessuna chiesa, nessun municipio ha fino a oggi inventato un solo argomento plausibile contro il suicidio. A chi non può sopportare la vita, che cosa rispondere? Nessuno è in grado di prendere su di sé il fardello di un altro. E di quale forza dispone la dialettica contro l'assalto degli affanni irrefutabili e contro mille evidenze sconsolate? Il suicidio è uno dei caratteri distintivi dell'uomo, una delle sue scoperte; nessuna bestia ne è capace, e gli angeli lo hanno solo intuito; senza di esso la realtà umana sarebbe meno curiosa e meno pittoresca: mancherebbe di un clima strano e di una serie di possibilità funeste, che hanno il loro valore estetico, non fosse che per introdurre nella tragedia soluzioni nuove e una varietà di epiloghi.
I saggi antichi, che si davano la morte come prova della loro maturità, avevano creato una disciplina del suicidio che i moderni hanno disimparato. Votati a un'agonia senza genio, noi non siamo né autori dei nostri gesti estremi, né arbitri dei nostri addii; la fine non è più la nostra fine: ci manca l'eccellenza di una iniziativa unica - con la quale riscatteremmo una vita scialba e senza talento - così come ci manca il cinismo sublime, il fasto antico di un'arte di morire. Abitudinari della disperazione, cadaveri che si accettano noi sopravviviamo tutti a noi stessi e non moriamo se non per espletare una formalità inutile. è come se la nostra vita si applicasse unicamente a ritardare il momento in cui potremmo sbarazzarci di essa.
       

Emil 26



PENSATORI CREPUSCOLARI

Atene stava morendo e, con lei, il culto della conoscenza. I grandi sistemi avevano fatto il loro tempo: limitati al campo concettuale, essi rifiutavano l'ingerenza dei tormenti, la ricerca della liberazione e della meditazione disordinata sul dolore. Poichè la città antica, ormai agonizzante, aveva permesso la conversione degli accidenti umani in teoria, qualsiasi cosa - dallo starnuto alla morte - soppiantava i vecchi problemi. L'ossessione dei rimedi segna la fine di una civiltà; la ricerca della salvezza quella di una filosofia. Platone e Aristotele avevano ceduto a tali preoccupazioni soltanto per esigenze di equilibrio, ma dopo di loro esse predominarono in tutti i settori.
Roma, al suo tramonto, ha raccolto di Atene soltanto gli echi della sua decadenza e i riflessi del suo esaurimento. Quando i greci diffondevano i loro dubbi in tutto l'Impero, il vacillare di quest'ultimo e della filosofia era ormai un fatto virtualmente compiuto. Dato che tutte le domande sembravano legittime, la superstizione dei limiti formali non impediva più l'orgia delle curiosità arbitrarie. L'infiltrazione dell'epicureismo e dello stoicismo trovava un terreno facile: la morale sostituiva gli edifici astratti, la ragione imbastardita diveniva strumento della pratica. Nelle vie di Roma, muniti di ricette diverse di "felicità", pullulavano gli epicurei e gli stoici, esperti in saggezza, nobili ciarlatani sorti ai margini della filosofia per guarire una prostrazione incurabile e generalizzata. Ma alla loro terapia mancavano la mitologia e gli aneddoti strani che, nel rammollimento generale, avrebbero presto fatto la forza di una religione incurante di sfumature, venuta da più lontano di loro.
La saggezza è l'ultima parola di una civiltà che si spegne, il nimbo dei crepuscoli storici, la stanchezza trasfigurata in visione del mondo, la tolleranza estrema prima dell'avvento di altri dèi più freschi - e della barbarie; essa è altresì un vano tentativo di melodia in mezzo ai rantoli della fine che salgono da ogni dove. Perchè il Saggio - teorico della morte limpida, eroe dell'indifferenza e simbolo dell'ultima tappa della Filosofia, della sua degenerazione e della sua vacuità - ha risolto il problema della propria morte... e ha soppresso dunque tutti i problemi. Fornito di ridicolaggini più rare, egli è un caso limite, che si incontra in periodi estremi a conferma eccezionale della patologia generale.
Trovandoci nel punto simmetrico dell'agonia antica, in preda agli stessi mali e vittime di seduzioni egualmente ineluttabili, noi vediamo i grandi sistemi distrutti dalla loro perfezione limitata. Anche per noi tutto diviene materia di una filosofia senza dignità e senza rigore... Il destino impersonale del pensiero si è disperso in mille anime, in mille umiliazioni dell'Idea... Né Leibniz né Kant né Hegel ci sono più di alcun aiuto. Siamo giunti insieme con la nostra morte davanti alle porte della filosofia: marce, e senza più niente da difendere, si aprono da sole... e qualsiasi cosa diventa argomento filosofico. Ai paragrafi si sostituiscono grida: ne deriva una filosofia del fundus animae, la cui intimità si riconoscerebbe nelle apparenze della storia e nei simulacri del tempo.
Anche noi cerchiamo la "felicità", vuoi per frenesia vuoi per disdegno: disprezzarla significa ancora non dimenticarla, e rifiutarla pensandovi; anche noi cerchiamo la "salvezza", non fosse altro che non volendola. E se siamo eroi negativi di un'Età troppo matura, per ciò ne siamo i contemporanei: tradire il proprio tempo o essere suoi devoti esprime - dietro la contraddizione apparente - uno stesso atto di partecipazione. Le grandi debolezze, i sottili sfaceli, l'aspirazione ad aureole intemporali - che conducono tutte alla saggezza -, chi potrebbe non riconoscerli in se stesso? Chi non si sente in diritto di affermare ogni cosa nel vuoto che lo circonda, prima che il mondo svanisca nell'aurora di un assoluto o di una negazione nuova? All'orizzonte c'è sempre un dio che minaccia. Siamo al margine della filosofia, poiché accettiamo la sua fine. Adoperiamoci per far sì che il dio non si insedi nei nostri pensieri, conserviamo i nostri dubbi, le apparenze di equilibrio e la tentazione del destino immanente, giacchè qualsiasi aspirazione arbitraria e balzana è preferibile alle verità inflessibili. Noi cambiamo medicine, senza trovarne neanche una che sia utile ed efficace, perchè non abbiamo fiducia nella quiete che cerchiamo, né nei piaceri che inseguiamo. Saggi incostanti, siamo gli epicurei e gli stoici delle Rome moderne...
       

Emil 25



LA SOLITUDINE, SCISMA DEL CUORE

Siamo votati alla perdizione ogni volta che la vita non si svela come un miracolo, ogni volta che l'istante non geme più sotto un brivido soprannaturale. Come rinnovare quella sensazione di pienezza, quegli attimi di delirio, quei barbagli vulcanici, quei prodigi di fervore che riducono Dio a un accidente della nostra argilla? Con quale sotterfugio rivivere quella folgorazione in cui la musica stessa ci pare superficiale e quasi un residuo del nostro organo interiore?
Non è in nostro potere rammentare i turbamenti che ci facevano coincidere con l'inizio del movimento, ci rendevano padroni del primo attimo del tempo e artigiani istantanei della Creazione. Di questa non percepiamo più altro che la miseria, la realtà squallida: viviamo per disimparare l'estasi. E non è il miracolo a determinare la nostra tradizione e la nostra sostanza, bensì il vuoto di un universo frustrato nei suoi ardori, inghiottito nelle proprie assenze, oggetto esclusivo del nostro rimuginare: un universo solo davanti a un cuore solo, predestinati, l'uno e l'altro, a distinguersi, e a esasperarsi nell'antitesi. Quando la solitudine cresce al punto di costituire non tanto la nostra condizione quanto la nostra unica fede, noi cessiamo di essere solidali con il tutto: eretici dell'esistenza, siamo banditi dalla comunità dei vivi, la cui sola virtù è di attendere con il fiato sospeso qualcosa che non sia la morte. Ma, affrancati dalla fascinazione di quest'attesa, respinti dall'ecumenicità dell'illusione, siamo la setta più eretica, giacché la nostra stessa anima è nata nell'eresia.

("Quando l'anima è in stato di grazia, la sua bellezza è così sublime e così mirabile che supera di gran lunga tutto ciò che vi è di bello nella natura, e incanta gli occhi di Dio e degli Angeli" [Ignazio di Loyola]. Ho cercato di insediarmi in una grazia qualsiasi, di liquidare gli interrogativi e sparire in una luce ignorante, in qualsiasi luce che disdegnasse l'intelletto. Ma come giungere a quel sospiro di felicità superiore ai problemi, quando nessuna "bellezza" ti illumina, e Dio e gli Angeli sono ciechi?
Un tempo, quando santa Teresa, patrona di Spagna e della tua anima, ti prescriveva un percorso di tentazioni e di vertigini, il baratro trascendente ti riempiva di meraviglia come una caduta nei cieli.Ma quei cieli sono svaniti - così come le tentazioni e le vertigini - e, nel cuore freddo, le febbri di Avila spente per sempre. Per quale stranezza della sorte certi esseri, giunti al punto in cui potrebbero identificarsi con una fede, arretrano per seguire un cammino che non li conduce se non a se stessi - e dunque da nessuna parte? è forse per paura di perdere le loro virtù manifeste, una volta che sia siano stabiliti nelle grazia? Ogni uomo si evolve a scapito delle proprie profondità, ogni uomo è un mistico che si rifiuta di esserlo: la terra è popolata di grazie mancate e di misteri calpestati).

Emil 24


APOTEOSI DEL VAGO

Si potrebbe cogliere l'essenza dei popoli - anco più che quella degli individui - nel modo con cui essi partecipano al vago. Le evidenze in cui vivono svelano soltanto il loro carattere transitorio, i loro contorni, le loro apparenze.
Ciò che un popolo può esprimere ha soltanto un valore storico: è la sua nascita nel divenire. Ma ciò che non può esprimere, il suo fallimento nell'eterno,è la sete infruttuosa di se stesso: poichè il suo sforzo di esaurirsi nell'espressione è destinato all'impotenza, esso vi sopperisce con certe parole - allusioni all'indicibile...
Quante volte, nelle nostre peregrinazioni fuori dall'intelletto, abbiamo acquietato i nostri turbamenti all'ombra di quei Sehnsucht, yearning, saudade, frutti sonori nati per cuori troppo maturi! Solleviamo il velo di queste parole: nascondono forse uno stesso contenuto? è possibile che lo stesso significato viva e muoia nelle ramificazioni verbali di un ceppo di indefinito? è concepibile che popoli così diversi fra loro provino nostalgia allo stesso modo?
Chi si arrovellasse per trovare le formule del male della lontananza, diverebbe vittima di un'architettura mal costruita. Per risalire all'origine di queste espressioni del vago, bisogna praticare una regressione affettiva verso la loro essenza, annegare nell'ineffabile e uscirne con i concetti a brandelli. Una volta perduti la sicurezza teorica e l'orgoglio dell'intellegibile, si può cercare di capire tutto, di capire tutto per se stessi. Allora si arriva a gioire dell'inesprimibile, a passare i propri giorni ai margini del comprensibile e a crogiolarsi nella periferia del sublime.
Per sfuggire alla sterilità bisogna dispiegarsi alle soglie della ragione...Vivere nell'attesa, in ciò che non è ancora, significa accettare lo squilibrio stimolante che l'idea di avvenire presuppone. Ogni nostalgia è un superamento del presente. Anche sotto la forma del rimpianto, essa assume un carattere dinamico: si vuole forzare il passato, agire retroattivamente, protestare contro l'irreversibile. La vita non acquista contenuto se non nella violazione del tempo. L'ossessione dell'altrove è l'impossibilità dell'istante; e questa impossibilità è la nostalgia stessa.
Che i francesi si siano rifiutati di provare e soprattutto di coltivare l'imperfezione dell'indefinito è certamente un segno rivelatore. In forma collettiva, questo male non esiste in Francia: il cafard non possiede qualità metafisica e la noia è singolarmente padroneggiata. I francesi respingono ogni compiacimento nei confronti del Possibile; la loro stessa lingua esclude ogni complicità con i suoi pericoli. C'è un altro popolo che si trovi più a suo agio nel mondo, un popolo per il quale l'espressione a casa propria abbia più senso e più peso, per il quale l'immanenza offra maggiori attrattive?
Per desiderare qualcosa di fondamentalmente altro, bisogna essere disinvestiti dello spazio e del tempo, e vivere in una scarsissima affinità con il luogo e con il momento. Il che spiega perchè la storia della Francia offra così poche discontinuità; è questa fedeltà alla propria essenza a lusingare la nostra tendenza alla perfezione e a deludere quel bisogno di incompiuto che una visione tragica implica. L'unica cosa contagiosa in Francia è la lucidità, l'orrore di essere ingannati, di essere vittime di checchessia. Per questo un francese non accetta l'avventura se non in piena coscienza; egli vuole essere ingannato; si benda gli occhi; l'eroismo inconsapevole gli sembra giustamente una mancanza di gusto, un sacrificio inelegante. Ma l'equivoco brutale della vita esige che predomini a ogni istante l'impulso, e non la volontà, di essere cadaveri, di essere giocati metafisicamente.
Se i francesi hanno caricato di troppa chiarezza la nostalgia, se le hanno tolto certe seduzioni intime e dannose, la Sehnsucht, al contrario, esaurisce ciò che vi è di insolubile nei conflitti dell'anima tedesca, divisa fra la Heimat e l'Infinito.
Come potrebbe trovar pace? Da un lato, la volontà di essere immersi nella comunione del cuore e del suolo; dall'altro, quella di assorbire continuamente lo spazio in un desiderio inappagato. E poiché lo spazio non ha limiti, e con esso aumenta la propensione per i vagabondaggi, lo scopo arretra via via che si avanza. Da qui il gusto esotico, la passione per i viaggi, il piacere del paesaggio in quanto tale, la mancanza di forma interiore, la profondità tortuosa, seducente e ripugnante nello stesso tempo. Non c'è soluzione alla tensione fra la Heimat e l'Infinito; ciò significa essere radicati e sradicati a un tempo, non aver potuto trovare un compromesso tra il focolare e la lontananza. L'imperialismo, costante funesta nella sua essenza ultima, non è forse la traduzione politica e volgarmente concreta della Sehnsucht?
Non si insisterà mai abbastanza sulle conseguenze storiche di certe approssimazioni interiori. Una di queste è appunto la nostalgia: essa ci impedisce di riposare nell'esistenza o nell'assoluto, ci obbliga a fluttuare nell'indistinto, a perdere le nostre basi, a vivere alla scoperto nel tempo.
Essere strappati al suolo, esiliati nella durata, recisi dalle proprie radici immediate, equivale a desiderare una reintegrazione nelle fonti originarie, anteriori alla separazione e alla lacerazione. La nostalgia è appunto il sentirsi eternamente lontani da casa; e, fuori dalle dimensioni luminose della Noia e dalla postulazione contraddittoria dell'Infinito e della Heimat, essa assume la forma del ritorno verso il finito, verso l'immediato, verso un richiamo terrestre e materno. Al pari dello spirito, il cuore si fabbrica utopie: e a più strana di tutte è quella di un universo natale, in cui ci si riposa di se stessi - cuscino cosmico di tutte le nostre stanchezze.
Nell'aspirazione nostalgica non si desidera qualcosa di palpabile, bensì una sorta di calore astratto, eterogeneo al tempo e affine a un presentimento paradisiaco. Tutto ciò che non accetta l'esistenza in quanto tale confina con la teologia. La nostalgia non è altro che una teologia sentimentale in cui l'Assoluto è costruito con gli elementi del desiderio, in cui Dio è l'Indeterminatezza elaborata dal languore.
      

Emil 23



IL PENSIERO INTERIETTIVO

L'idea di infinito dev'essere nata in un giorno di rilassamento in cui un vago languore si è infiltrato nella geometria, così come il primo atto di conoscenza deve essersi verificato quando, nel silenzio dei riflessi, un brivido macabro ha isolato la percezione del suo oggetto. Quante avversioni o nostalgie abbiamo dovuto accumulare per risvegliarci alle fine soli, tragicamente superiori all'evidenza! Un sospiro dimenticato ci ha fatto fare un passo fuori dall'immediato; una stanchezza banale ci ha allontanti da un paesaggio o da una persona; gemiti diffusi ci hanno separati dalle innocenze dolci o timorose. L'insieme di queste distanze accidentali costituisce - bilancio dei nostri giorni e delle nostre notti - lo scarto che ci distingue dal mondo, e che lo spirito si sforza di ridurre e di ricondurre alle nostre fragili proporzioni. Ma l'opera di ogni prostrazione si fa sentire: dove andare a cercare altra materia sotto i nostri passi?
All'inizio pensiamo per evadere dalle cose; poi, quando ci siamo spinti troppo oltre, per perderci nel rimpianto della nostra evasione...Ed è per questo che i nostri concetti si concatenano come sospiri dissimulati, ogni riflessione funge da interiezione, e una tonalità querula sommerge la dignità della logica. Tinte funebri offuscano  le idee, intrusioni del cimitero nei paragrafi, tanfo di marcio nei precetti, ultimo giorno d'autunno in un cristallo intemporale... Lo spirito è inerme contro i miasmi che lo assalgono, perchè questi sprigionano dal luogo più corrotto che ci sia fra la terra e il cielo, dal luogo dove la follia alberga nella tenerezza, cloaca di utopie e verminaio di sogni: la nostra anima. E quand'anche potessimo mutare le leggi dell'universo o prevederne i capricci, essa ci soggiogherebbe con le sue miserie, con il principio della sua rovina. Un'anima che non sia perduta? Se ci fosse, sarebbe da mettere a verbale, perchè la scienza, la santità e la commedia se ne impadroniscano!

Emil 22



LA COSCIENZA DELL'INFELICITà

Qualsiasi cosa, elementi e atti, concorre a ferirti, corazzarti di sdegni, isolarti in una fortezza di disgusto, sognare indifferenze sovrumane? Gli echi del tempo ti perseguiterebbero nelle tue estreme assenze... Quando nulla può impedirti di sanguinare, le idee stesse si tingono di rosso o sconfinano come tumori le une sulle altre. Nella farmacie non vi è alcun rimedio contro l'esistenza - solo palliativi per i fanfaroni. Ma dov'è l'antidoto alla disperazione chiara, infinitamente articolata, fiera e sicura? Tutti gli esseri sono infelici; ma quanti lo sanno? La coscienza dell'infelicità è una malattia troppo grave per figurare in un'aritmetica delle agonie o nei registri dell'Incurabile.Essa sminuisce il prestigio dell'inferno e trasforma i mattatoi dei tempi in idilli. Quale peccato hai commesso per nascere, quale colpa per esistere? Il tuo dolore, al pari del tuo destino, è senza motivo. Soffrire davvero significa accettare l'invasione dei mali senza la scusa della causalità, come un favore della natura demente, come un miracolo negativo...
Nella frase del Tempo gli uomini si inseriscono come le virgole, mentre tu, per arrestarlo, ti sei immobilizzato in punto. 


Emil 21



IL VELENO ASTRATTO

è importante che anche i nostri mali vaghi, le nostre inquietudini diffuse, che degenerano in fisiologia, siano ricondotti, con un procedimento inverso, alle manovre dell'intelligenza.Se si innalzasse la Noia - percezione tautologica del mondo, tetro già deduttiva, se le si offrisse la tentazione di una prestigiosa sterilità? Quando non si appoggia a un ordine superiore, l'anima sprofonda nella carne - e la fisiologia diventa l'ultima parola dei nostri ebetismi filosofici. Convertire i veleni immediati in valori di scambio intellettuale, promuovere alla funzione di strumento la corruzione evidente, oppure servirsi di norme per coprire l'impurità di ogni sentimento e di ogni sensazione, tutto ciò che è una ricerca di eleganza necessaria allo spirito, in confronto al quale l'anima - questa iena patetica - è soltanto profonda e sinistra. Lo spirito in sé può essere soltanto superficiale, dato che la sua natura si preoccupa unicamente della sistemazione degli avvenimenti concettuali e non delle loro implicazioni nelle sfere che essi significano. I nostri stati gli interessano unicamente nella misura in cui sono trasferiili. Così la malinconia emana dai nostri visceri e raggiunge il vuoto cosmico; ma lo spirito lo adotta soltanto epurata da ciò che la collega alla fragilità dei sensi; esso la interpreta; affinata, diviene punto di vista: malinconia categoriale. La teoria fiuta e capta i nostri veleni; e li rende meno nocivi. è una degradazione dall'alto, poichè lo spirito - amante delle vertigini pure - è nemico delle intensità.

Emil 20



ANNULLAMENTO TRAMITE LA LIBERAZIONE

Una dottrina della salvezza non ha senso se non si parte dall'equazione esistenza-sofferenza. A tale equazione non siamo condotti né da una constatazione istantanea né da una serie di ragionamenti, bensì dall'elaborazione inconscia di tutti i nostri istanti, dal contributo di tutte le nostre esperienze, minime o capitali. Quando vi sono in noi germi di delusioni e quasi un'ansia di vederli schiudersi, il desiderio che il mondo invalidi continuamente le nostre speranze moltiplica le verifiche voluttuose del male. Gli argomenti vengono dopo; la dottrina si costruisce: ciò che ancora rimane è soltanto il pericolo della "saggezza". E se invece non ci si vuole affrancare dalla sofferenza né si vogliono vincere le contraddizioni e i conflitti, se si preferiscono le sfumature dell'incompiuto e le dialettiche affettive all'uniformità di una impasse sublime? La salvezza finisce tutto; e ci finisce. Chi, una volta salvato, osa dirsi ancora vivo? Si vive realmente soltanto grazie al rifiuto di liberarsi della sofferenza e a una sorta di tentazione religiosa dell'irreligiosità. La salvezza tormenta soltanto gli assassini e i santi, quelli che hanno ucciso o superato la creatura; gli altri sguazzono -ubriachi fradici- nell'imperfezione...
Il torto di ogni dottrina della liberazione è di sopprimere la poesia, clima dell'incompiuto.Il poeta si tradirebbe se aspirasse a salvarsi: la salvezza è la morte del canto, la negazione dell'arte e dello spirito. Come sentirci solidali con una conclusione? Possiamo affinare, coltivare i nostri dolori, ma come possiamo emanciparcene senza sospendere noi stessi? Docili alla maledizione, esistiamo solo in quanto soffriamo. Un'anima non cresce e non muore se non per la quantità di insopportabile che è capace di affrontare.

  

Emil 19



LA CHIAVE DELLA NOSTRA SOPPORTAZIONE.

Chi arrivasse, grazie a un'immaginazione traboccante di pietà, a registrare tutte le sofferenze, a essere contemporaneo di tutte le pene e di tutte le angosce di un istante qualsiasi - supponendo che un simile essere possa esistere -, sarebbe un  mostro d'amore e la più grande vittima della storia del cuore. Ma non occorre che ci figuriamo una simile impossibilità. Basta soltanto procedere  all'esame di noi stessi, praticare l'archeologia dei nostri allarmi. Se andiamo avanti nel supplizio dei giorni è perchè niente ci può fermare all'infuori dei nostri dolori; quelli altrui ci sembrano giustificabili e tali da poter essere superati: noi crediamo che gli altri soffrano perchè non hanno abbastanza volontà, coraggio o lucidità. Ogni sofferenza che non sia la nostra ci pare legittima o ridicolmente intelligibile; se così non fosse, il lutto sarebbe la sola costante nella mutevolezza dei nostri sentimenti. Ma noi portiamo soltanto il lutto di noi stessi. Se potessimo comprendere e amare l'infinità delle agonie che si trascinano intorno a noi, tutte le vite che sono morti dissimulate, ci occorrerebbero tanti cuori quanti sono gli esseri che soffrono. E se avessimo una memoria miracolosamente attuale che mantenesse presenti tutte quante le nostre pene passate, soccomberemmo sotto un tale fardello. La vita non è possibile se non grazie alle deficienze della nostra immaginazione e della nostra memoria.
La forza che abbiamo ci viene dai nostri oblii e dalla nostra incapacità di rappresentarci la pluralità dei destini simultanei. Nessuno potrebbe sopravvivere alla comprensione istantanea del dolore universale, dato che ogni cuore è fatto solo per una certa quantità di sofferenze. Vi sono come dei limiti materiali alla nostra sopportazione; ciò nonostante, l'espansione di ogni pena li raggiunge e a volte li travalica: questa è troppo spesso l'origine della nostra rovina. Da qui deriva l'impressione che ogni dolore, ogni pena siano infiniti.Lo sono, in effetti, ma soltanto per noi, per i confini del nostro cuore; e anche se questo raggiungesse le dimensioni del vasto spazio, i nostri mali sarebbero più vasti ancora, poichè ogni dolore si sostituisce al mondo, e a ogni pena è necessario un altro universo. La ragione si applica invano a mostrarci le proporzioni infinitesimali dei nostri accidenti; essa fallisce davanti alla nostra tendenza alla proliferazione cosmogonica. Ecco perchè la vera follia non è mai dovuta agli estri o ai disastri del cervello, bensì alla falsa concezione dello spazio che il cuore si crea...
     

Emil 18



L'ANIMALE INDIRETTO

è una vera e propria disfatta quella a cui si arriva quando si pensa continuamente, con un'ossessività radicale, che l'uomo esiste, che è quello che è - e non può essere altro. Ma quello che è viene dichiarato da mille definizioni senza che nessuna si imponga: più sono arbitrarie, più sembrano efficaci. L'assurdità più alata e la banalità più greve gli si addicono egualmente. L'infinità dei suoi attributi compone l'essere più impreciso che si possa concepire. Mentre le bestie vanno direttamente allo scopo, lui si perde in giri e rigiri; è l'animale indiretto per eccellenza . I Suoi improbabili riflessi - dall'allentamento dei quali deriva la coscienza - lo trasformano in un convalescente che aspira alla malattia. Niente è sano in lui se non il fatto di esserlo stato. Che sia un angelo che ha perduto le ali o una scimmia che ha perduto il pelo, non è potuto emergere dall'anonimato delle creature se non grazie alle eclissi della propria salute. Il suo sangue mal composto ha permesso all'infiltrarsi di incertezze, il delinearsi di problemi; la sua vitalità mal disposta, l'intrusione di punti interrogativi e di segni di stupore. Come definire il virus che, minando la sua sonnolenza, lo ha condannato alle veglie in mezzo all'assopimento delle creature? Quale verme si è impadronito del suo riposo, quale agente primitivo della conoscenza lo ha obbligato a ritardare gli atti, a frenare le voglie? Chi ha introdotto il primo languore nella sua ferocia? Uscito dal brulichio degli altri esseri viventi, si è creato una confusione più sottile, ha sfruttato minuziosamente i mali di una vita strappata a se stessa. Da tutto quello che ha intrapreso per guarirsi da solo si è originata una malattia più strana: la sua "civiltà" non è che lo sforzo di trovare la medicina adatta a uno stato incurabile - e desiderato. Lo spirito avvizzisce all'approssimarsi della salute: l'uomo è invalido - o non è.
Quando, dopo aver pensato a tutto, pensa a se stesso - giacchè a ciò arriva solo il tramite dell'universo, e come all'ultimo problema da porsi - . Rimane sorpreso e confuso. Ma alla natura che si incanaglia eternamente nella salute continua a preferire il proprio fallimento.
(Da Adamo in poi ogni sforzo degli uomini ha mirato a modificare l'uomo. Gli intenti riformatori e pedagogici, esercitati a spese dei dati irriducibili, snaturano il pensiero e ne alterano il movimento. La conoscenza non ha nemico più accanito dell'istinto educatore, ottimista e virulento, a cui i filosofi non possono sfuggire: come potrebbero i loro sistemi esserne indenni? Fuorchè l'Irrimediabile, tutto è falso: falsa quella civiltà che vuole combatterlo, false le verità di cui essa si arma.
A eccezione degli scettici antichi e dei moralisti francesi, sarebbe difficile citare un solo pensatore le cui teorie, segretamente o esplicitamente, non tendano a modellare l'uomo. Ma questi rimane inalterato, nonostante abbia seguito la serie di nobili precetti proposti alla sua curiosità, offerti al suo ardore e al suo smarrimento. Mentre tutti gli esseri hanno il loro posto nella natura, lui resta una creatura metafisicamente errante, perduta nella Vita, incongrua nella Creazione. Alla storia nessuno è mai riuscito a trovare uno scopo plausibile; ma tutti ne hanno proposti, ed è un pullulare di scopi così divergenti e bislacchi che l'idea di finalità ne è annullata e si riduce a irrisorio articolo dello spirito. Ognuno subisce di persona quella unità di disastro che è il fenomeno uomo. E l'unico senso del tempo è di molteplicare queste unità, di accrescere indefinitamente queste sofferenze verticali che si reggono su un briciola di materia, sull'orgoglio di un nome e su una solitudine senza appello).
   

Emil 17


RINUNCIA

è successo nella sala d'aspetto di un ospedale: una vecchia mi spiegava i suoi malanni ...le controversie degli uomini, i cataclismi della storia: dei nonnulla ai suoi occhi; nello spazio e nella durata non regnava altro che il suo male. "Non posso mangiare, non posso dormire, ho paura, dev'esserci del pus" sciorinava accarezzandosi la mascella con un interesse che non sarebbe stato più grande se da quella fossero dipese le sorti del mondo.Tale eccesso di attenzioni a sé da parte di una donnetta decrepita lì per lì mi lasciò indeciso fra lo spavento e il digusto; poi uscii dall'ospedale prima che arrivasse il mio turno, deciso a rinunciare per sempre ai miei dolori...
"Cinquantanove secondo per ciascuno dei miei minuti" rimuginavo per strada "sono stati dedicati alla sofferenza o... all'idea di sofferenza. Magari avessi avuto la vocazione della pietra! Il "cuore": origine di ogni supplizio...Aspiro all'oggetto, alla benedizione della materia e dell'opacità. Il viavai di un moscerino mi pare un'impresa apocalittica. Si commette peccato a uscire da se stessi...Il vento, follia dell'aria! La musica, follia del silenzio! Capitolando davanti alla vita, il mondo ha mancato nei confronti del nulla...Io mi dimetto dal movimento e dai miei sogni. Assenza! Tu sarai la mia unica gloria...Che il "desiderio" sia depennato per sempre dai dizionari e dagli animi!Arretro dinanzi alla farsa vertiginosa dei domani. E se conservo ancora qualche speranza, ho perduto per sempre la facoltà di sperare."