Emil 78



IL PARASSITA DEI POETI

I. Non può esserci epilogo nella vita di un poeta. La sua potenza gli viene proprio da tutto ciò che non ha intrapreso, da tutti gli istanti nutriti di inaccessibile. Sente l'inconveniente di esistere? La sua facoltà di espressione ne è rinvigorita, il suo respiro diviene più ampio.
Una biografia si giustifica soltanto se mette in evidenza l'elasticità di un destino, la quantità delle variabili che esso comporta. Ma il poeta segue una linea di fatalità il cui rigore non può essere mitigato da nulla. è ai babbei che tocca in sorte la vita; e appunto per supplire a quella che i poeti non hanno avuto sono state inventate le loro biografie...
La poesia esprime l'essenza di ciò che non si riesce a possedere; il suo significato ultimo è l'impossibilità di qualunque "attualità". La gioia non è un sentimento poetico. (Essa rientra tuttavia in un settore dell'universo lirico dove il caso riunisce, in un unico fascio, gli ardori e le sciocchezze). Si è mai dato un canto di speranza che non ispirasse un senso di disagio o addirittura di nausea? E come si fa a cantare una presenza, quando il possibile stesso è viziato da una traccia di volgarità?
Tra la poesia e la speranza, l'incompatibilità è totale; così il poeta è vittima di un'ardente decomposizione. Chi mai oserebbe chiedersi come egli abbia sentito la vita, dal momento che è stata la morte a renderlo vivo? Quando cede alla tentazione della felicità - egli appartiene alla commedia... Ma se invece dalle sue piaghe si sprigionano bagliori, ed egli canta la gioia, questa voluttuosa incandescenza dell'infelicità -,  si sottrae alla sfumatura di volgarità inerente a ogni accento positivo. è il caso di Hölderlin che si rifugia in una Grecia di sogno e trasfigura l'amore con ebbrezze più pure, quelle dell'irrealtà...
Il poeta sarebbe un odioso disertore del reale se nella sua fuga non portasse con sé la sua infelicità.
Al contrario del mistico e del saggio, egli non riesce a sfuggire a se stesso né a evadere dal centro della propria ossessione: perfino le sue estasi sono inguaribili, e segni premonitori di disastri. Incapace di salvarsi, per lui tutto è possibile, tranne la propria vita...


  

Emil 77



I VANTAGGI DELLA DEBOLEZZA

L'individuo che non superi la sua natura di bell'esemplare, di modello compiuto, e la cui esistenza si confonda con il suo destino vitale, si colloca al di fuori dello spirito. La mascolinità ideale - ostacolo alla percezione delle sfumature - implica insensibilità nei riguardi del soprannaturale quotidiano, da cui l'arte attinge la sua sostanza. Più si è natura, meno si è artisti. Il vigore omogeneo, indifferenziato, opaco, fu idolatrato dal mondo delle leggende, dalle fantasie della mitologia. Quando i greci si diedero alla speculazione, il culto dell'efebo anemico sostituì quello dei giganti; e gli eroi stessi, babbei sublimi ai tempi di Omero, divennero, grazie alla tragedia, portatori di tormenti e di dubbi incompatibili con la loro rozza natura.
La ricchezza interiore deriva dai conflitti che manteniamo vivi in noi; ora, la vitalità totalmente padrona di se stessa conosce soltanto la lotta esterna, l'accanimento sull'oggetto. Nel maschio snervato da una dose di femminilità si affrontano due tendenze: attraverso ciò che in lui è passivo egli coglie tutto un mondo di abbandoni; attraverso ciò che è imperioso converte la sua volontà in legge. Finchè i suoi istinti restano inalterati, egli concerne solo la specie; ma non appena si insinua in lui un'insoddisfazione segreta, diventa un conquistatore. Lo spirito lo giustifica, lo spiega e lo scusa e, collocandolo nell'ordine degli sciocchi superiori, lo abbandona alla curiosità della Storia - indagine sulla stupidità in azione...
Colui per il quale l'esistenza non costituisce un male al tempo stesso intenso e vago non riuscirà mai a porsi al centro dei problemi, né a conoscerne i pericoli. La condizione propizia alla ricerca della verità o dell'espressione si trova a metà strada fra l'uomo e la donna: le lacune della "virilità" sono la sede dello spirito... Se la femmina pura, che non sarebbe possibile sospettare di alcuna anomalia sessuale e psichica, è interiormente più vuota di una bestia, il maschio intatto corrisponde perfettamente alla definizione del "cretino". Pensate a un qualsiasi essere umano che abbia attratto la vostra attenzione o suscitato la vostra passione: nel suo meccanismo qualcosa si è guastato a suo vantaggio. Noi disprezziamo giustamente coloro che non hanno mai messo a profitto i loro difetti, che non hanno sfruttato le loro carenze e non si sono arricchiti delle loro perdite, così come disprezziamo ogni uomo che non soffra di essere uomo o semplicemente di essere. Non si può quindi infliggere a qualcuno offesa più grave che chiamarlo "felice", né lusingarlo di più attribuendogli un "fondo di tristezza"... Il fatto è che la gaiezza non è collegata ad alcun atto importante e che, al di fuori dei pazzi, nessuno ride quando è solo.
La "vita interiore" è prerogativa dei delicati, di quegli aborti frementi, soggetti a un'epilessia senza caduta né bava. L'essere biologicamente integro diffida della "profondità", ne è incapace, vede in essa una dimensione sospetta che nuoce alla spontaneità degli atti. Non si inganna: con il ripiegamento su se stesso comincia il dramma dell'individuo - la sua gloria e il suo declino; isolandosi dal flusso anonimo, dallo scorrere autoritario della vita, egli si emancipa dai fini oggettivi. Una civiltà è "minata" quando sono i delicati a darle il tono; ma grazie a loro, trionfa definitivamente sulla natura - e sprofonda. Un supremo esemplare di raffinatezza riunisce in sé l'esaltato e il sofista: non aderisce più ai propri slanci, li coltiva senza crederci; è la debolezza onnisciente delle epoche crepuscolari, che prefigura l'eclissi dell'uomo. I delicati ci fanno intravedere il momento in cui i portinai saranno estenuati da scrupoli di esteti; in cui i contadini, piegati dai dubbi, non avranno più il vigore necessario a impugnare l'aratro; in cui tutti gli esseri, rosi dallo chiaroveggenza e svuotati dagli istinti, si spegneranno senza la forza di rimpiangere la prospera notte delle loro illusioni...
 
 
               

Emil 76



IL PENSATORE D'OCCASIONE

Vivo nell'attesa dell'Idea; la sento, la intuisco, la delimito, la colgo - e non posso formularla, mi sfugge, ancora non mi appartiene: non l'avrò concepita in mia assenza? E come posso, da imminente e confusa, renderla presente e luminosa nell'agonia intelligibile dell'espressione? Quale stato devo sperare perchè sbocci - e sfiorisca?
Antifilosofo quale sono, aborro qualsiasi idea indifferente: non sono sempre triste, dunque non penso sempre. Quando guardo le idee, mi sembrano ancora più inutili delle cose; perciò ho amato soltanto le elucubrazioni dei grandi malati, le rimuginazioni dell'insonnia, i lampi di un terrore incurabile e i dubbi attraversati da sospiri. La quantità di chiaroscuro contenuta in un'idea è l'unico indice delle sue profondità, così come l'accento disperato della sua gaiezza è l'indice della sua fascinazione. Quante notti bianche nasconde il tuo passato notturno? Questo dovremmo chiedere a ogni pensatore. Colui che pensa quando vuole non ha niente da dirci: essendo al di sopra del suo pensiero - o piuttosto accanto a esso -, non ne è responsabile, non vi è impegnato fino in fondo, non guadagna e non perde nulla ad arrischiarsi in una lotta nella quale non è lui stesso il proprio nemico. Non gli costa niente credere nella Verità. Diverso è il caso di uno spirito per il quale il vero e il falso abbiano smesso di essere superstizioni; distruttore di tutti i criteri, egli si constata, come gli infermi e i poeti; pensa per accidente: la gloria di un malessere o di un delirio gli basta. Un'indigestione non è forse più ricca di idee di quanto non lo sia una sfilza di concetti? Le disfunzioni degli organi determinano la fecondità dello spirito: colui che non sente il proprio corpo non sarà mai in grado di concepire un pensiero vivo; attenderà vanamente la sorpresa vantaggiosa di qualche inconveniente...
Nell'indifferenza affettiva, le idee si delineano; tuttavia nessuna può prenderne forma: spetta alla tristezza offrire il clima favorevole alla loro fioritura.
Hanno bisogno di una certa tonalità, di un certo colore per vibrare e per illuminarsi. Essere a lungo sterili significa spiarle, desiderarle senza poterle compromettere in una formula. Le "stagioni" dello spirito sono condizionate da un ritmo organico; non dipende da "me" essere ingenuo o cinico: le mie verità sono sofismi del mio entusiasmo o della mia tristezza. Esisto, sento e penso a seconda del momento - e mio malgrado. Il Tempo mi costituise; invano mi oppongo a esso - e sono.
Il mio presente non desiderato si svolge, mi svolge; non potendo comandarlo, lo commento; schiavo dei miei pensieri, gioco con loro come un buffone della fatalità...

    

Emil 75



L'UOMO TARLATO

Non voglio più collaborare con la luce né adoperare il gergo della vita. E non dirò più: "Io sono" senza arrossire. L'impudenza del fiato, lo scandalo del respiro sono legati all'uso di un verbo ausiliare...
è passato il tempo in cui l'uomo pensava a se stesso in termini di aurora; giacendo su una materia divenuta anemica, ora è disposto a compiere il suo vero dovere, quello di studiare la propria perdita e di correrle incontro; eccolo sulle soglie di una nuova èra: quella della Pietà di sé. E questa Pietà è la sua seconda caduta, più netta e più umiliante della prima: è una caduta senza riscatto. Invano egli scruta gli orizzonti: migliaia e migliaia di salvatori vi si profilano, salvatori da farsa, anche loro sconsolati. Egli se ne allontana per prepararsi, nella sua anima sfatta, alla dolcezza di marcire...Giunto nel più profondo del suo autunno, egli oscilla tra l'Apparenza e il Nulla, tra la forma ingannevole dell'essere e la sua assenza: vibrazione tra due irrealtà...
La coscienza occupa il vuoto che segue all'erosione dell'esistenza da parte dello spirito. Occorre l'obnubilazione di un credente o di un idiota per integrarsi alla "realtà" che svanisce all'apparire del minimo dubbio, di un accenno di improbabilità o di un soprassalto di angoscia - altrettanti rudimenti che prefigurano la coscienza e che,  una volta sviluppati, la generano, la definiscono e la esasperano.
Sotto l'effetto della coscienza, di questa presenza incurabile, l'uomo accede al suo più alto privilegio: quello di perdersi.
- Malato d'onore della natura, egli ne corrompe la linfa; vizio astratto degli istinti, ne distrugge la forza. L'universo avvizzisce al suo contatto e il tempo fa fagotto...Egli non poteva giungere a compimento - e discendere la china - se non sulla rovina degli elementi. Finita la sua opera, è maturo per scomparire: su quanti secoli ancora diffonderà il suo rantolo?

    
      

Emil 74


L'UNIVERSO FUORI MODA

Nell'universo verbale il processo di invecchiamento segue un ritmo molto più accellerato che nell'universo materiale.

Se le parole, troppo ripetute, si estenuano e muoiono, la monotonia costituisce invece la legge della materia. Allo spirito occorrerebbe un dizionario infinito, ma i suoi mezzi sono limitati a pochi vocaboli resi triviali dall'uso. Ecco perchè il nuovo, che esige combinazioni strane, obbliga le parole a funzioni impreviste: l'originalità si riduce alla forzatura dell'aggettivo e a una suggestiva improprietà della metafora. Mettete le parole al loro posto: avrete il cimitero quotidiano della Parola. Ciò che in una lingua è consacrato ne costituisce la morte: una parola prevista è una parola defunta; soltanto il suo impiego artificiale le infonde un vigore nuovo, nell'attesa che la gente la adotti, la logori e la imbratti. Lo spirito è prezioso o non è, mentre la natura si abbandona alla semplicità dei suoi mezzi, sempre gli stessi.

Ciò che chiamiamo la nostra vita distinguendola dalla vita in genere è un'incessante creazione di mode per mezzo della parola maneggiata artificialmente; è una proliferazione di futilità, senza le quali saremmo costretti a spirare in uno sbadiglio che inghiottirebbe la storia e la materia. Se l'uomo inventa fisiche nuove, non è tanto per giungere a una spiegazione plausibile della natura, quanto piuttosto per sfuggire alla noia dell'universo convenuto, abituale, volgarmente irriducibile, al quale egli attribuisce arbitrariamente tante dimensioni quanti sono gli aggettivi da noi proiettati su una cosa inerte che siamo stanchi di vedere e di subire quale era vista e subita dalla stupidità dei nostri antenati o dei nostri immediati predecessori.

Guai a chi, avendo capito questa mascherata, se ne allontana! Avrà calpestato il segreto della sua vitalità - e andrà a raggiungere la verità immobile e senza orpelli di coloro nei quali si sono prosciugate le fonti della Preziosità e il cui spirito si è svigorito per mancanza di artifici.

(è più che legittimo figurarsi il momento in cui la vita passerà di moda, in cui cadrà in disuso come la luna o la tubercolosi dopo gli abusi romantici: essa andrà a coronare l'anacronismo dei simboli denudati e delle malattie smascherate; tornerà a essere se stessa: un male senza attrattive, una fatalità senza splendore. Ed è anche troppo prevedibile il momento in cui nessuna speranza sorgerà più dai cuori, la terra sarà glaciale come le creature e nessun sogno verrà più ad abbellire la sterile immensità. L'umanità si vergognerà a generare quando vedrà le cose come sono. La vita senza la linfa degli equivoci e delle lusinghe, la vita che smette di essere una moda non troverà clemenza presso il tribunale dello spirito. Ma, dopo tutto, anche lo spirito svanirà: esso non è che un pretesto nel nulla, così come, nel nulla, la vita non è che un pregiudizio. La storia si regge fino a quando, al di sopra delle sue mode transitorie, di cui gli avvenimenti sono l'ombra, una moda più generale incombe come un invariante; ma quando tale invariante si rivelerà a tutti un semplice capriccio, quando la cognizione dell'errore diverrà un bene comune e una verità unanime, dove mai troveremo l'energia per generare, o anche solo per abbozzare un atto, il simulacro di un gesto? In virtù di quale arte potremo sopravvivere ai nostri istinti chiaroveggenti e ai nostri cuori lucidi? In virtù di quale prodigio riusciremo a rianimare una tentazione futura in un universo fuori moda?).

Emil 73



DIFESA DELLA CORRUZIONE

Se si mettesse su un piatto della bilancia il male che i "puri" hanno riversato sul mondo, e sull'altro il male  provocato dagli uomini senza princìpi né scrupoli, è dalla parte del primo piatto che penderebbe la bilancia. Nella mente che la propone, ogni formula di salvezza appronta una ghigliottina... I disastri delle epoche corrotte sono meno gravi dei flagelli causati dalle epoche di fanatismo; il fango è più piacevole del sangue; e c'è più dolcezza nel vizio che nella virtù, più umanità nella depravazione che nel rigorismo. L'uomo che regna e che non crede in nulla:
ecco il modello di un paradiso della decadenza, di una suprema soluzione alla storia. Gli opportunisti hanno salvato i popoli; gli eroi li hanno rovinati. Sentirsi contemporanei non già della Rivoluzione e di Bonaparte, ma di Fouché e di Talleyrand: alla loro incostanza sarebbe occorsa soltanto una nota di tristezza in più perchè ci suggerissero con i loro atti un'Arte di vivere.
è alle epoche dissolute che va il merito di mettere a nudo l'essenza della vita, di rivelarci che tutto è solamente farsa o amarezza - e che nessun evento merita di essere abbellito: esso è necessariamente esecrabile. La menzogna agghindata delle grandi epoche, di un certo secolo, di un certo re, di un certo papa...La "verità" non traspare se non quando gli uomini, dimentichi del delirio costruttivo, si lasciano andare alla dissoluzione delle morali, degli ideali e delle credenze. Conoscere è vedere; non è né sperare né intraprendere.
La stupidità che caratterizza i momenti culminanti della storia non ha equivalenti se non nell'idiozia di coloro che ne sono i motori. è per mancanza di sottigliezza che si portano all'estremo gli atti e i pensieri. A uno spirito sottile ripugnano la tragedia e l'apoteosi: le disgrazie e gli onori lo esasperano quanto la banalità. Andare troppo oltre significa dare infallibilmente prova di cattivo gusto. L'esteta aborre il sangue, il sublime e gli eroi... Apprezza ormai soltanto i burloni...


       

Emil 72



MALEDIZIONE DIURNA

Ripetersi mille volte al giorno "Niente ha valore quaggiù", ritrovarsi eternamente allo stesso punto e mulinare scioccamente come una trottola... Giacché non vi è progressione nell'idea della vanità di ogni cosa, né punto d'arrivo; e, per quanto lontano ci si avventuri in queste rimuginazioni, la nostra conoscenza non ne è minimamente accresciuta: essa si ritrova allo stato attuale altrettanto ricca e insignificante di come era al punto di partenza. è un arresto nell'incurabile, una lebbra dello spirito, una rivelazione attraverso lo stupore. Un povero di spirito, un idiota che subisca un'illuminazione e vi si insedi senza alcuna possibilità di uscirne e di recuperare la sua condizione nebulosa e confortevole: ecco lo stato di colui che si vede coinvolto suo malgrado nella percezione dell'universa fatalità. Abbandonato dalle sue notti, e come in preda a una chiarezza che lo soffoca, non sa cosa farsene di questo giorno che non finisce più. Quando dunque la luce cesserà di diffondere i suoi raggi, funesti al ricordo di un mondo notturno e anteriore a tutto ciò che fu? Com'è remoto il caos, riposante e calmo, che ha preceduto la terribile Creazione, oppure quello, ancora più dolce, del nulla mentale!     

Emil 71


LIPEMANIA

Perché non hai la forza di sottrarti all'obbligo di respirare? Perché subisci ancora quest'aria solidificata che ti blocca i polmoni e preme contro la tua carne? Come vincere queste speranze opache e queste idee pietrificate, quando, di volta in volta, tu imiti la solitudine di una roccia o l'isolamento di uno sputo rappreso sui margini del mondo? Sei più lontano da te stesso che da un pianeta non ancora scoperto, e i tuoi organi, rivolti verso i cimiteri, ne invidiano il dinamismo...
Tagliarti le vene per inondare questo foglio che ti irrita come ti irritano le stagioni? Ridicolo tentativo! Il tuo sangue, scolorito dalle notti bianche, non scorre più... Niente risveglierà in te la sete di vivere e di morire, spenta degli anni, bandita per sempre da quelle sorgenti senza mormorio né bellezza a cui si abbeverano gli uomini. Aborto dalla labbra aride e mute, resterai al di là del rumore della vita e della morte, al di là perfino del rumore delle lacrime...

(La vera grandezza dei santi consiste in quel potere - insuperabile fra tutti - di vincere la Paura del Ridicolo. Noi non siamo capaci di piangere senza vergognarcene; loro invece invocano il "dono delle lacrime". La preoccupazione del decoro delle nostre "aridità" ci immobilizza in spettatori del nostro infinito amaro e compresso, delle nostre lacrime che non sgorgano. Eppure la funzione degli occhi non è quella di vedere, ma di piangere; e per vedere realmente, dobbiamo chiuderli: questa è la condizione dell'estasi, della sola visione rivelatrice, mentre la percezione si esaurisce nell'orrore del déjà vu, di un irreparabile risaputo.
In colui che ha presagito gli inutili disastri del mondo e che dal sapere ha tratto soltanto la conferma di un disincanto innato, gli scrupoli che lo dissuadono dal piangere accentuano la predestinazione alla tristezza. E se in qualcche maniera invidia le gesta dei santi, non è tanto per il loro disprezzo delle apparenze o per la loro sete di trascendenza, quanto piuttosto per la loro vittoria su quella paura del ridicolo a cui egli non può sottrarsi e che lo trattiene al di qua della sconvenienza soprannaturale delle lacrime).

Emil 70

L'ARROGANZA DELLA PREGHIERA

Quando si giunge al limite del monologo, ai confini della solitudine, si inventa - in mancanza di altri interlocutori - Dio, supremo pretesto di dialogo. Finché Lo nominate, la vostra demenza è ben mascherata e... tutto vi è permesso. Il vero credente si distingue a malapena dal folle: ma la sua follia è legale, è ammessa; se le sue aberrazioni fossero scevre di qualsiasi fede egli finirebbe in un manicomio. Ma Dio le copre, le rende legittime. L'orgoglio di un conquistatore impallidisce di fronte all'ostentazione di un devoto che si rivolge al Creatore. Come si può ardire tanto? E com'è possibile che la modestia sia una virtù dei templi, quando una vecchia decrepita, che crede l'Infinito alla sua portata, s'innalza con la preghiera a livelli di audacia cui nessun tiranno ha mai osato aspirare?  
Sacrificherei l'impero del mondo per un solo istante in cui le mie mani giunte implorassero il grande Responsabile dei nostri enigmi e delle nostre banalità. Eppure questo istante costituisce la qualità ordinaria - e una sorta di tempo ufficiale - di qualsiasi credente. Ma chi è veramente modesto ripete a se stesso: "Troppo umile per pregare, troppo inerte per varcare la soglia di una chiesa, io mi rassegno alla mia oscurità, e non voglio una capitolazione di Dio davanti alle mie preghiere". E a coloro che gli propongono l'immortalità, risponde: "Il mio orgoglio non è inesauribile: le sue risorse sono limitate. Voi credete di vincere, in nome della fede, il vostro io; in realtà, desiderate perpetuarlo nell'eternità, perchè questa durata non vi basta. La vostra superbia supera in raffinatezza tutte le ambizioni del secolo. Quale sogno di gloria, paragonato al vostro, non si rivela inganno e fumo? La vostra fede è semplicemente delirio di grandezza tollerato dalla comunità perchè imbocca vie traverse; ma voi siete ossessionati unicamente dalla vostra polvere: avidi di intemporale, perseguitate il tempo che la disperde. Soltanto l'aldilà offre spazio sufficiente alle vostre brame; la terra e i suoi istanti vi sembrano troppo effimeri. La megalomania dei conventi supera tutto quanto abbiano mai potuto immaginare i deliri sontuosi dei palazzi. Chiunque non accetti la propria nullità è un malato di mente. E il credente è il meno disposto di tutti ad accettarla. La volontà di durare, spinta fino a questo punto, mi spaventa. Mi sottraggo alla seduzione malsana di un io indefinito. Voglio sguazzare nella mia mortalità. Voglio restare normale."

(Signore, datemi la facoltà di non pregare mai, risparmiatemi l'insania di qualsiasi adorazione, allontanate da me quella tentazione d'amore che mi consegnerebbe per sempre a voi. Possa stendersi il vuoto fra il mio cuore e il cielo! Non auspico affatto che i miei deserti siano popolati dalla vostra presenza, le mie notti tiranneggiate dalla vostra luce, le mie Siberie fuse sotto il vostro sole. Più solo di voi, voglio che le mie mani siano pure, al contrario delle vostre che si lordarono per sempre impastando la terra e immischiandosi nelle cose del mondo. Alla vostra insulsa onnipotenza non chiedo altro che il rispetto della mia solitudine e dei miei tormenti. Non so che farmene delle vostre parole; e temo la follia che me le farebbe udire. Dispensatemi il miracoloso raccoglimento che precedette il primo istante, la pace che non poteste tollerare e che vi incitò a praticare una breccia nel nulla per aprirvi questa fiera dei tempi, e per condannarmi così all'universo - all'umiliazione e alla vergogna di essere).


Emil 69


L'AVVENTO DELLA COSCIENZA

Quanto hanno dovuto indebolirsi i nostri istinti, e quanto il loro funzionamento ha dovuto allentarsi, prima che la coscienza estendesse il controllo su tutti i nostri atti e i nostri pensieri! La prima reazione naturale raffrenata provocò tutti i rinvii dell'attività vitale, tutti i nostri fallimenti nell'immediato. L'uomo - bestia dai desideri ritardati - è un nulla lucido che ingloba tutto e non è inglobato da niente, che sorveglia tutti gli oggetti e non dispone di nessuno di essi.
Paragonati alla comparsa della coscienza, gli altri avvenimenti sono di poca o nessuna importanza. Ma tale comparsa, in contrasto con i dati della vita, costituisce un'irruzione pericolosa dentro al mondo animato, uno scandalo nella biologia. Niente la lasciava prevedere: l'automatismo naturale non suggeriva l'eventualità di un animale capace di lanciarsi oltre la materia. Il gorilla che perde i peli e li sostituisce con gli ideali, il gorilla in guanti, fabbricatore di dèi, che accentua le sue smorfie e adora il cielo: quanto deve aver sofferto la natura, e quanto soffrirà ancora, davanti a una simile caduta! Il fatto è che la coscienza porta lontano e permette qualsiasi cosa. Per l'animale, la vita è un assoluto; per l'uomo, è un assoluto e un pretesto. Nell'evoluzione dell'universo, non c'è fenomeno più importante di questa possibilità a noi riservata di convertire tutti gli oggetti in pretesti, di scherzare con le nostre imprese quotidiane, e con le nostre mete ultime, di mettere sullo stesso piano, grazie alla divinità del capriccio, un dio e una scopa.
E l'uomo non si sbarazzerà dei suoi antenati - e della natura - se non quando avrà liquidato in lui tutte le vestigia dell'Incondizionato, quando la sua vita e quella degli altri gli sembreranno un semplice teatro di burattini i cui fili egli tirerà per ridere, in un divertimento da fine dei tempi. Allora sarà l'essere puro. La coscienza avrà svolto il suo ruolo...

   

Emil 68



LA MENZOGNA IMMANENTE

Vivere significa: credere e sperare - mentire e mentirsi. Perciò l'immagine più veritiera dell'uomo che mai sia stata creata rimane quella del cavaliere dalla Triste Figura, il cavaliere che si ritrova anche nel saggio più perfetto. Il penoso episodio intorno alla Croce o l'altro, più maestoso, coronato dal Nirvana partecipano della stessa irrealtà, sebbene all'uno e all'altro sia stata riconosciuta quella qualità simbolica che in seguito fu rifiutata alle avventure del povero hidalgo. Non tutti gli uomini possono riuscire: la fecondità delle loro menzogne è variabile... Il tale inganno trionfa: ne consegue una religione, una dottrina o un mito - e una folla di devoti; il talatro invece abortisce: allora non è che un vaneggiamento, una teoria, una finzione. Soltanto le cose inerti non aggiungono nulla a ciò che sono: una pietra non mente, dunque non interessa a nessuno - mentre la vita inventa senza posa: la vita è il romanzo della materia.
Polvere invaghita di fantasmi - questo è l'uomo: la sua immagine assoluta, idealmente rassomigliante, si incarnerebbe in un Don Chisciotte visto da Eschilo...

(Se nella gerarchia delle menzogne la vita occupa il primo posto, subito dopo viene l'amore, menzogna nella menzogna. Espressione della nostra posizione ibrida, l'amore si circonda di un apparato di beatitudini e di tormenti grazie ai quali troviamo in un altro sostituto di noi stessi. In virtù di quale frode due occhi riescono a distrarci dalla nostra solitudine? C'è fallimento più umiliante per lo spirito? L'amore assopisce la conoscenza; la conoscenza ridestata uccide l'amore. L'irrealtà non può trionfare indefinitamente, nemmeno sotto le spoglie della più esaltante menzogna. E chi, del resto, potrebbe avere un'illusione così salda da trovare nell'altro ciò che inutilmente ha cercato in sé? Un calore dei visceri ci offrirebbe dunque ciò che l'intero universo non ha saputo offrirci? Eppure è proprio questo il fondamento dell'anomalia corrente, e soprannaturale, dell'amore: risolvere in due - o piuttosto sospendere - tutti gli enigmi; grazie a un'impostura, dimenticare la finzione in cui è calata la vita; colmare, turbando insieme, la vacuità generale; e infine - parodia dell'estasi - annegare nel sudore di una complice qualsiasi...)

Emil 67


CONDIZIONI DELLA TRAGEDIA

Se Gesù avesse concluso la sua carriera sulla croce e non si fosse impegnato a risuscitare - che bell'eroe da tragedia sarebbe stato! Il suo lato divino ha fatto perdere alla letteratura uno splendido tema. Così egli condivide la sorte, esteticamente mediocre, di tutti i giusti. Come tutto ciò che si perpetua nel cuore degli uomini, come tutto ciò che si espone al culto e non muore irrimediabilmente, egli non si presta a quella visione di una fine totale che segna un destino tragico. Perché questo fosse possibile bisognava che nessuno lo seguisse, e che la trasfigurazione non intervenisse a elevarlo a un'illecita aureola. Niente è più estraneo alla tragedia dell'idea di redenzione, di salvezza e di immortalità! L'eroe soccombe sotto i propri atti senza che gli sia dato di evitare la morte in virtù di una grazia soprannaturale - in nessun modo, rimane distinto nella memoria degli uomini come uno spettacolo di sofferenza; non avendo discepoli, il suo destino infruttuoso feconda soltanto l'immaginazione altrui. Macbeth rovina senza la speranza di un riscatto: non c'è nessuna estrema unzione nella tragedia...
La peculiarità di una fede, anche a costo del fallimento, è eludere l'Irreparabile. (Che cosa se ne sarebbe fatto Shakespeare di un martire?). Il vero eroe combatte e muore in nome del proprio destino, non già di una convinzione. La sua esistenza esclude qualsiasi idea di scappatoia; le vie che non conducono alla morte sono per lui vicoli ciechi; egli lavora alla propria "biografia"; cura il proprio epilogo e, istintivamente, ricorre a ogni mezzo per costruirsi eventi funesti. Poiché la fatalità è la sua linfa, qualsiasi via d'uscita sarebbe necessariamente un'infedeltà alla propria rovina. Ecco perchè l'uomo del destino non si converte mai a una qualsivoglia credenza: rischierebbe di mancare la propria fine. E se fosse immobilizzato sulla croce, certamente non leverebbe gli occhi verso il cielo: la sua storia personale è il suo unico assoluto, come la sua volontà di tragedia è il suo unico desiderio...
  

Emil 66


EFFIGIE DEL FALLITO

Poiché qualsiasi atto gli fa orrore, ripete a se stesso: "Che sciocchezza il movimento!". Non sono tanto gli avvenimenti a irritarlo quanto l'idea di prendervi parte; e non si muove se non per allontanarsene. I suoi sogghigni hanno devastato la vita prima che egli ne esaurisse la linfa. è un Ecclesiaste da trivio, che attinge all'universale insignificanza una scusa alle proprie sconfitte. Ansioso di trovare futile qualsiasi cosa, vi riesce facilmente, poiché tutte le evidenze stanno dalla sua parte. Nella battaglia degli argomenti, è sempre vittorioso, così come nell'azione è sempre vinto: egli ha "ragione", rifiuta tutto - e tutto lo rifiuta. Ha capito prematuramente ciò che non si deve capire se si vuole vivere - e poiché il suo talento conosceva troppo bene le proprie funzioni, egli lo ha dissipato per paura che defluisse nell'idiozia di un'opera. Portando l'immagine di quello che avrebbe potuto essere come uno stigma e come un nimbo, arrosisce e si gloria dell'eccellenza della propria sterilità, perpetuamente estraneo alle seduzioni ingenue, unico affrancato tra gli iloti del Tempo. Tra la sua libertà dall'immensità dei suoi inadempimenti; è un dio infinito e miserevole che nessuna creazione limita, nessuna creatura adora e nessuno risparmia. Il disprezzo che ha riversato su gli altri, gli altri lo ricambiano. Espia unicamente gli atti che non ha compiuto, il cui numero, però supera il calcolo del suo orgoglio ferito. Ma alla fine, in guisa di consolazione e al termine di una vita senza titoli, egli porta la sua inutilità come una corona.

("A che pro?" - adagio del Fallito, di colui che si compiace della morte... quale stimolante quando si comincia a esserne ossessionati! Giacché la morte , prima di farsi troppo opprimente, ci arrichisce, aumenta le nostre forze al suo contatto; è più avanti che esercita su di noi la sua opera di distruzione. Poiché l'evidenza dell'inutilità di qualsiasi sforzo  quella certa sensazione di cadavere futuro si ergono già nel presente, riempiendo l'orizzonte del tempo, esse finiscono con l'intorpidirci le idee, le speranze e i muscoli, sicché quell'eccesso di slancio suscitato dalla nostra ultima ossessione si converte - non appena questa si sia stabilita irrevocabilmente nello spirito - in una stasi della nostra vitalità. Così, questa ossessione ci incita a divenire tutto e niente. In teoria essa dovrebbe metterci davanti alla sola scelta possibile: il convento o il cabaret. Ma quando non riusciamo più a sfuggire ad essa né con l'eternità né con i piaceri, quando, assillati nel mezzo della nostra vita, siamo lontani dal cielo come dalla volgarità, essa ci trasforma in quella sorta di eroi decomposti che promettono tutto e non concludono nulla: oziosi che si affannano nel Vuoto; carogne verticali, la cui unica attività si riduce al pensare che cesseranno di essere...)

     

Emil 65



ULTIMO ARDIMENTO

Se è vero che Nerone esclamò: "Beato te, Priamo, che hai visto la rovina della tua patria", riconosciamogli il merito di aver raggiunto il sublime della sfida, l'ultima ipostasi del gran gesto e dell'enfasi lugubre. Dopo una simile frase, così stupendamente appropriata in bocca a un imperatore, abbiamo diritto alla banalità: anzi, vi siamo costretti! Chi mai potrebbe ancora ambire alla stravaganza? Gli infimi accidenti della nostra trivialità ci costringono ad ammirare quel Cesare crudele e istrione (tanto più che la sua demenza ha conosciuto una gloria maggiore di quella dei sospiri delle sue vittime, visto che la storia scritta è almeno altrettanto inumana degli avvenimenti ai quali essa vi ispira). A paragone con i suoi, tutti gli atteggiamenti sembrano scimmiottature. E se è vero che fece incendiare Roma perchè gli piaceva l'Iliade, c'è mai stato omaggio più sensibile a un'opera d'arte? In ogni caso, è il solo esempio di critica letteraria in azione, di un giudizio estetico attivo.
L'effetto esercitato su di noi da un libro non è reale se non quando ci venga voglia di imitarne l'intreccio, di uccidere se l'eroe uccide, di essere gelosi se è geloso, malati o moribondi se soffre o muore. Ma tutto ciò resta per noi allo stato virtuale o finisce in lettera morta; soltanto Nerone si offre la letteratura come spettacolo; le sue recensioni le fa con la cenere dei propri contemporanei e della capitale...
Era davvero necessario che, almeno una volta, queste parole fossero dette e questi atti compiuti.
Se ne è incaricato uno scellerato. La cosa può consolarci, anzi deve, altrimenti come potremmo riprendere la nostra solita vita e le nostre verità brave e buone?

 

Emil 64


FELICITà DEGLI EPIGONI

Esiste delizia più sottilmente equivoca dell'assistere alla rovina di un mito? Quale sperpero dei cuori per farlo nascere, quali eccessi di intolleranza per farlo rispettare, quale terrore per coloro che non lo accettano e quale dispendio di speranza per vederlo... spirare! L'intelligenza fiorisce soltanto nelle epoche in cui le convinzioni avvizziscono, i loro articoli e i loro precetti si allentano, le loro regole si ammorbidiscono. Ogni fine d'epoca è il paradiso dello spirito, che può ritrovare i suoi svaghi e i suoi estri soltanto dentro un organismo in pieno dissolvimento. Chi ha la disgrazia di appartenere a un periodo di creazione e di fecondità ne subisce i limiti e le consuetudini; schiavo di una visione unilaterale, è chiuso dentro un orizzonte ristretto. I momenti storici più fertili furono anche quelli più irrespirabili; si imponevano come una fatalità, benefica per uno spirito ingenuo, letale per un amante degli spazi intellettuali. La libertà non trova respiro se non fra gli epigoni disillusi e sterili, nelle menti delle epoche di decadenza, quelle in cui lo stile si disgrega e ispira tutt'al più un compiacimento ironico.
Far parte di una chiesa incerta del suo dio - che un tempo essa impose con il fuoco e con il sangue - dovrebbe essere l'ideale di tutti i begli ingegni. Quando un mito diventa languido e diafano, e l'istituzione da cui è sostenuto si fa clemente e compresiva i problemi acquistano una elasticità piacevole. L'intiepidirsi di una fede, l'affievolirsi della sua forza instaurano negli animi un dolce vuoto e li rendono ricettivi, senza tuttavia permettere loro di continuare a illudersi davanti alle superstizioni che minacciano e incupiscono l'avvenire. A cullare lo spirito sono soltanto queste agonie della storia che precedono l'insania di ogni aurora...

  

Emil 63


OSSESSIONE DELL'ESSENZIALE

Quando ogni interrogativo appare accidentale e periferico, quando lo spirito cerca problemi sempre più vasti, accade che nel suo procedere esso non s'imbatta più in alcun altro oggetto se non nell'ostacolo diffuso del Vuoto. Da quel momento lo slancio filosofico, rivolto esclusivamente all'inaccessibile, si espone al fallimento. Passando in rassegna le cose e i pretesti temporali, esso si impone difficoltà salutari; ma se ricerca un principio sempre più generale, si perde e si annulla nella vaghezza dell'Essenziale.
Prosperano nella filosofia soltanto coloro che si fermano al momento giusto, che accettano la limitazione e l'agio di uno stadio ragionevole dell'inquietudine. Ogni problema, quando lo si svisceri, conduce alla bancarotta e lascia l'intelletto allo scoperto: non più domande, non più risposte in uno spazio senza orizzonte. Gli interrogativi si rivoltano contro chi li ha concepiti: egli diviene loro vittima. Tutto gli è ostile: la propria solitudine, la propria audacia, l'assoluto opaco, gli dèi inverificabili e il nulla palese. Guai a colui che, giunto a un dato momento dell'essenziale, non si arresta! La storia mostra come i pensatori che sono saliti fino in cima alla scala delle domande e che hanno posato il piede sull'ultimo gradino, quello dell'assurdo, non hanno lasciato in eredità ai posteri nient'altro che un esempio di sterilità, mentre i loro confratelli che si sono fermati a metà strada hanno fecondato il corso dello spirito: hanno servito i loro simili, hanno trasmesso loro qualche idolo ben modellato, alcune superstizioni garbate, alcuni errori camuffati da princìpi e un sistema di speranze. Se avessero abbracciato i pericoli di una progressione eccessiva, lo sprezzo degli inganni caritatevoli li avrebbero resi nocivi agli altri e  a se stessi, ed essi avrebbero iscritto il loro nome ai confini dell'universo e del pensiero - indagatori malsani e reprobi infecondi, amatori di vertigini infruttuose, cercatori di sogni che non è lecito fare...
Le idee refrattarie all'Essenziale sono le sole che abbiano presa sugli uomini. Che cosa se ne farebbero essi di una regione del pensiero in cui vacilla perfino colui che aspira a stabilirvisi per inclinazione naturale o per desiderio morboso?
Non si può respirare in un campo estraneo ai dubbi usuali. E se certi spiriti si collocano al di fuori degli interrogativi convenzionali, è segno che un istinto radicato profondamente nella materia o un vizio nato da una malattia cosmica si è impossessato di loro e li ha condotti a un ordine di riflessioni così esigente e così ampio da far sembrare la morte stessa priva di importanza, gli elementi del destino sciocchezze, l'apparato della metafisica utilitario e sospetto. Questa ossessione dell'ultima frontiera, questo progresso nel vuoto portano con sé la forma più pericolosa di sterilità, in confronto alla quale il nulla sembra una promessa di fecondità. Colui che fa il difficile - nel lavoro o nell'avventura - non ha che da trapiantare la propria esigenza del finito sul piano universale per non riuscire più a terminare né la propria opera né la propria vita.
L'angoscia metafisica appartiene alla condizione di un artigiano sommamente scrupoloso il cui unico oggetto sia l'essere. A forza di analisi, egli si trova nell'impossibilità di comporre, di perfezionare una miniatura dell'universo. L'artista che abbandona il suo poema, esasperato dalla povertà delle parole, prefigura lo smarrimento dello spirito che si sente inappagato in tutto ciò che esiste. L'incapacità di allineare gli elementi - privi di senso e di sapore come le parole che li esprimono - porta alla rivelazione del vuoto. è così che il rimatore si ritira nel silenzio o in artifici impenetrabili. Davanti all'universo lo spirito troppo esigente subisce una sconfitta simile a quella di Mallarmé di fronte all'arte. è il panico davanti a un oggetto che non è più oggetto, che non si può più maneggiare, perchè - idealmente - se ne sono superati i confini. Coloro che non restano all'interno della realtà che coltivano, coloro che trascendono il mestiere di esistere, debbono o venire a patti con l'inessenziale, fare marcia indietro e sottomettersi alla farsa eterna, oppure accettare tutte le conseguenze di una condizione separata, la quale è superfetazione o tragedia, a seconda che la si guardi o la si viva.

    

Emil 62



FILOSOFIA E PROSTITUZIONE

Il filosofo, disgustato dai sistemi e dalle superstizioni, ma ancora perseverante sulle strade del mondo, dovrebbe imitare il pirronismo da marciapiede che manifesta la creatura meno dogmatica: la prostituta. Lei che è distaccata da tutto e aperta a tutto; che sposa l'umore e le idee del cliente; che cambia tono e faccia a seconda dell'occasione; che è pronta a essere triste o gaia, pur restando indifferente; che prodiga sospiri per interesse commerciale; che rivolge al godimento sincero di colui  che le sta addosso uno sguardo illuminato e falso - propone allo spirito un modello  di comportamento che rivaleggia con quello dei saggi. Essere senza convinzioni riguardo agli uomini e a se stessi: questo è l'alto insegnamento della prostituzione, accademia ambulante di lucidità, al margine della società come della filosofia.
"Tutto quello che so, l'ho imparato dalle donne di strada" dovrebbe esclamare il pensatore che accetta tutto e rifiuta tutto, quando, seguendo il loro esempio, si è specializzato nel sorriso stanco, quando gli uomini non sono per lui nient'altro che clienti, e i marciapiedi del mondo il mercato  dove vende la sua amarezza, così come le sue compagne vendono il loro corpo.

Emil 61


STORIA E VERBO

Come non amare la saggezza autunnale delle civiltà molli e svigorite? L'orrore del greco, come quello romano della decadenza, dinanzi alla freschezza e ai riflessi iperborei derivava dalla repulsione per le aurore, per la barbarie traboccante di avvenire e per le idiozie della salute. La splendente corruzione di ogni autunno storico è offuscata dalla vicinanza dello scita. Nessuna civiltà può spegnersi in un'agonia indefinita; le si aggirano attorno delle tribù, fiutando il lezzo dei cadaveri profumati... Così, l'amante dei tramonti contempla il fallimento di ogni raffinatezza e l'avanzata impudente della vitalità. Di tutto il divenire gli resta da raccogliere soltanto qualche aneddoto...
Un sistema di avvenimenti non prova più nulla: le grandi gesta sono ormai cose da fiabe e da manuali. Le imprese gloriose del passato, così come gli uomini che le suscitarono, interessano ormai soltanto per le belle parole che le hanno coronate. Guai al conquistatore privo di spirito! Gesù stesso, seppure dittatore indiretto da due millenni, non ha lasciato traccia nel ricordo dei suoi fedeli e dei suoi detrattori se non per quei frammenti di paradossi che costellano la sua vita così accortamente teatrale.Come interessarsi ancora a un martire, se non ha proferito una sola parola adeguata alla sua sofferenza? Noi serbiamo memoria delle vittime passate o recenti soltanto se il loro verbo ha immortalato il sangue che le ha macchiate. Gli stessi carnefici non sopravvivono se non in quanto furono commedianti: Nerone sarebbe stato dimenticato da un pezzo senza le sue arguzie da buffone sanguinario.
Quando al capezzale di un moribondo i suoi simili tendono l'orecchio ai suoi balbettii, non è tanto per decifrarvi un'ultima volontà, quanto piuttosto per raccogliere un motto lapidario da citare in futuro al fine di onorare la memoria del defunto. Se gli storici romani non tralasciano mai di descrivere l'agonia degli imperatori, è per inserirvi una sentenza o un'esclamazione che essi pronunciarono o che si ritiene abbiano pronunciato. Questo vale per tutte le agonie, anche per le più comuni. La vita non significa nulla, questo tutti lo sanno o lo intuiscono: che sia almeno salvata da qualche trovata verbale! Una frase alla svolta della loro vita - ecco, grossomodo, quello che si richiede ai grandi e ai piccoli. Se vengono meno a questa esigenza, a questo obbligo, sono perduti per sempre; giacché si perdona tutto, perfino i crimini, a patto che siano squisitamente commentati - e che appartengano al passato. Questa è l'assoluzione che l'uomo concede all'intera storia, quando nessun altro criterio si dimostra operante e valido; e lui stesso, ricapitolando l'inanità generale, non si riconosce altra dignità se non quella di un letterato del fallimento e di un esteta del sangue.
In questo mondo, dove le sofferenze si confondono e si cancellano, regna soltanto il Motto.

Emil 60


"LA PERDUTA GENTE"

Che idea strampalata quella di costruire dei gironi nell'Inferno, far variare a seconda dei compartimenti l'intensità delle fiamme e gerarchizzare i tormenti! L'importante è esserci: il resto - semplici fioriture o...bruciature. Nella città dell'alto - prefigurazione più mite di quella del basso, dato che entrambe dipendono dallo stesso padrone - l'essenziale non è essere qualcosa - re, borghese, bracciante - bensì aderire o sottrarsi. Potete sostenere questa o quella idea, avere un posto o strisciare, ma dal momento che i vostri atti e i vostri pensieri servono una forma di città reale o sognata, voi siete suoi idolatri e suoi prigionieri. L'impiegato più timido come l'anarchico più focoso, anche se con atteggiamenti diversi, vivono in funzione sua: entrambi sono interiormente cittadini, benché l'uno preferisca le pantofole e l'altro le bombe. I "gironi" della città terrestre, esattamente come quelli della città sotterranea, rinchiudono gli esseri in una comunità dannata, e li trascinano in una stessa sequela di sofferenze, in cui sarebbe ozioso cercare sfumature. Colui che dà il proprio consenso alle cose umane - sotto una qualsivoglia forma, rivoluzionaria o conservatrice che sia - si consuma in una dilettazione pietosa: mescola le sue nobiltà e le sue volgarità nella confusione del divenire...
All'essere non consenziente, che sta al di qua o al di là della città, e a cui ripugna intervenire nel corso dei grandi o dei piccoli avvenimenti, tutti i modi di vita in comune sembrano egualmente spregevoli. Per lui la storia può presentare soltanto il debole interesse delle delusioni reiterate e degli artifici prevedibili. Chi ha vissuto tra gli uomini, e spera ancora in un solo evento inatteso, non ha capito e non capira mai nulla. è maturo per la città: tutto deve essergli offerto, ogni carica e ogni onore. Ciò è proprio di tutti gli uomini - spiega la longevità di questo inferno sublunare.

Emil 59



ITINERARIO DELL'ODIO

Io non odio nessuno - ma l'odio rende nero il mio sangue e brucia questa pella che gli anni non sono riusciti a scurire. Come domare, con giudizi teneri o rigorosi, una tristezza laida e un grido scorticato?
Ho voluto amare la terra e il cielo, le loro gesta e i loro ardori - e non vi ho trovato nulla che non mi ricordasse la morte: fiori, astri, volti -, simboli di avvizzimento, lapidi virtuali di tutte le tombe possibili! Ciò che nella vita si crea, e che la nobilita, è avviato verso una fine macabra o insignificante. L'effervescenza dei cuori ha provocato disastri che nessun demonio avrebbe osato concepire. Se vedete uno spirito infiammato, siate pur certi che finirete con l'esserne vittime. Coloro che credono nella propria verità - i soli di cui la memoria degli uomini serbi traccia - lasciano dietro di sé la terra disseminata di cadaveri. Le religioni contano nel loro bilancio più delitti di quanti ne abbiano al loro attivo le tirannie più sanguinarie, e coloro che l'umanità ha divinizzato superano di gran lunga gli assassini più coscienziosi nella loro sete di sangue.
Colui che propone una fede nuova è perseguitato in attesa di diventare a sua volta persecutore: le verità cominciano da un conflitto con la polizia e finiscono col farsi sostenere da essa; giacché ogni assurdità per cui si sia sofferto degenera in legalità, così come ogni martirio approda ai paragrafi del codice, allo squallore del calendario o alla toponomastica. In questo mondo, il cielo stesso diventa autorità; e si sono visti periodi che vissero unicamente per esso, medioevi più prodighi di guerre di quanto lo siano state le epoche più dissolute, crociate bestiali, falsamente verniciate di sublime, di fronte alle quali le invasioni degli unni sembrano scapestrataggini di orde decadenti.
Le gesta immacolate si degradano a impresa pubblica; la consacrazione offusca il nimbo più aereo. Un angelo protetto da un gendarme - è così che muoiono le verità e si spengono gli entusiasmi. Basta che una rivolta trionfi e crei seguaci, che una rivelazione si propaghi e una istituzione la confischi, perchè i brividi un tempo solitari - toccati in sorte a qualche neofita sognatore - s'infanghino in un'esistenza prostituita. Mi si indichi quaggiù una sola cosa che sia cominciata bene e non sia finita male. I palpiti più fieri si inabissano in una fogna, dove cessano di battere, come giunti al loro termine naturale: questo decadimento costituisce il dramma del cuore e il senso negativo della storia. Ogni "ideale" alimentato, agli inizi, dal sangue dei suoi proseliti, si usura e svanisce quando viene adottato dalla folla. Ecco l'acquasantiera tramutata in sputacchiera: è il ritmo ineluttabile del "progresso"...
In simili condizioni, su chi riversare il proprio odio? Nessuno è responsabile di essere, e ancora meno di essere quel che è. Colpito da esistenza, ognuno subisce come una bestia le conseguenze che ne derivano. è così che, in un mondo dove tutto è odioso, l'odio diventa più grande del mondo e, per aver superato il proprio oggetto, si annulla.

(Non sono le stanchezze sospette, né le turbe specifiche degli organi a rivelarci il grado più basso della nostra vitalità; e neanche le nostre perplessità o le variazioni del termometro; eppure ci basta provare questi accessi di odio o di pietà senza motivo, queste febbri non misurabili, per comprendere che il nostro equilibrio è in pericolo. Odiare tutto e se stessi in uno scatenarsi di rabbia cannibalesca; aver pietà di tutti e impietosirsi su se stessi - moti in apparenza contraddittori ma originariamente identici; giacché non si può esser mossi a pietà se non da ciò che si vorrebbe far scomparire, da ciò che non merita di esistere. E in tali convulsioni, colui che le subisce e l'universo a cui sono indirizzate non sfuggiranno alla stessa furia distruttrice e commossa. Quando improvvisamente si è presi dalla compassione senza sapere per chi, vuol dire che una prostrazione degli organi presagisce un cedimento pericoloso; e quando questa compassione vaga e universale viene rivolta a se stessi, si è nella condizione dell'ultimo degli uomini.Proprio da un'immensa debolezza fisica deriva quella solidarietà negativa che, nell'odio o nella pietà, ci lega alle cose. Questi due accessi, simultanei o consecutivi, non sono tanto sintomi incerti quanto segni precisi di una vitalità in declino, e che tutto irrita - dall'esistenza indistinta fino alla nitidezza della nostra persona. Eppure non dobbiamo ingannarci: questi accessi sono i più lampanti e i più smodati, ma niente affatto gli unici: sia pure in gradi diversi, tutto è patologia, al di fuori dell'Indifferenza).

Emil 58


SNEBBIAMENTO

Le non misteriose preoccupazioni degli esseri si profilano con la stessa chiarezza dei contorni di questa pagina... Che cosa iscrivervi se non il disgusto delle generazioni che si concatenano come proposizioni nella sterile fatalità di un sillogismo?

L'avventura umana avrà sicuramente un termine, che si può immaginare senza esserne contemporanei. Quando in se stessi si è consumato il divorzio della storia, diventa del tutto superfluo assistere alla sua fine.Basta guardare l'uomo in faccia per distaccarsene e non rimpiangere più le sue frodi. Millenni di sofferenze, tali da intenerire le pietre, non hanno fatto che rendere insensibile questa efemera d'acciaio, agitata da una follia insulsa, da una volontà di esistere inafferabile e impudica insieme. Quando si avverte che nessun motivo umano è compatibile con l'infinito, e che nessun gesto è degno di essere anche semplicemente abbozzato, il cuore, con i suoi battiti, non può più nascondere la sua vacuità. Gli uomini si confondono in una sorte uniforme e vana come, per un occhio indifferente, gli astri - o le croci di un cimitero militare. Di tutti gli scopi offerti all'esistenza, quale, sottoposto ad analisi, sfugge alla farsa o all'obitorio? Quale non rivela che siamo futili o sinistri? E c'è un solo sortilegio che possa ingannarci ancora?

(Quando si è banditi dalle norme visibili, si diventa come il Diavolo, metafisicamente illegali; si è usciti dall'ordine del mondo: non trovandovi più posto, lo si guarda senza riconoscerlo; lo stupore si regolarizza in riflesso, mentre lo sbigottimento lamentoso, mancando di oggetto, è per sempre inchiodato al Vuoto. Si subiscono sensazioni che non corrispondono più alle cose perchè niente le stimola più; si supera così perfino il sogno dell'Angelo della Malinconia, e si rimpiange che Dürer non abbia sospirato per occhi ancor più lontani...

Quando tutto, anche la versione più nobile, sembra troppo concreto, troppo esistente, e si vagheggia un Indefinito che non appartenga né alla vita né alla morte, quando ogni contatto con l'essere è uno stupro per l'anima, questa si esclude dalla giurisdizione universale e, non avendo più conti da rendere né leggi da trasgredire, rivaleggia - in tristezza - con l'onnipotenza divina).

Emil 57


LA VITA SENZA OGGETTO

Idee neutre con occhi aridi; sguardi smorti che tolgono alle cose ogni rilievo; autoauscultazioni che riducono i sentimenti a fenomeni di attenzione; vita evanescente, senza lacrime e senza riso - come inculcare in voi una linfa, una volgarità primaverile? E come sopportare questo cuore dimissionario, e questo tempo troppo svigorito per trasmettere ancora alle proprie stagioni il fermento della crescita e della dissoluzione?

Quando in ogni fede hai visto una sozzura e in ogni affetto una profanazione, non hai più il diritto di attendere, quaggiù o altrove, una sorte modificata dalla speranza. Bisogna che tu scelga un promontorio ideale, risibilmente solitario, o una stella da farsa, ribelle alle costellazioni. Irresponsabile per tristezza, la tua vita ha deriso i suoi istanti; ma la vita è pietà della durata, sentimento di un'eternità danzante, tempo che supera se stesso e rivaleggia con il sole...

 

ACEDIA

Questa stasi degli organi, questa ebetudine delle facoltà, questo sorriso pietrificato, non ti ricordano spesso la noia dei conventi, i cuori disertati da Dio, l'aridità e l'idiozia dei monaci che si esecrano nel trasporto estatico della masturbazione? Tu non sei altro che un monaco senza ipotesi divine e senza l'orgoglio del vizio solitario.

La terra e il cielo sono le pareti della tua cella, e nell'aria che nessun alito muove regna soltanto l'assenza di orazione. Votato alle ore vuote dell'eternità, alla periferia dei brividi e ai desideri ammuffiti che marciscono all'approssimarsi della salvezza, tu muovi verso un Giudizio universale senza fasti e senza trombe, mentre i tuoi pensieri, come unica solennità, non hanno immaginato altro che la processione irreale delle speranze.

Con l'aiuto delle sofferenze, le anime un tempo si libravano verso le volte; tu urti contro di esse. E ricadi nel mondo come in una Trappa senza fede, a vagabondare nel Viale, Ordine delle donne perdute - e della tua perdizione.

 

I MISFATTI DEL CORAGGIO E DELLA PAURA

Aver paura significa pensare continuamente a sé e non poter immaginare un corso obiettivo delle cose. La sensazione del terribile, la sensazione che tutto succeda contro di voi, presuppone un mondo concepito senza pericoli indifferenti. Il pauroso - vittima di una soggettività esagerata - si crede, assai più degli altri uomini, il bersaglio di avvenimenti ostili. In questo errore si incontra con il coraggioso, che, al contrario, vede l'invulnerabilità dappertutto. Entrambi hanno toccato gli estremi di una coscienza infatuata di se stessa: contro l'uno, tutto cospira; per l'altro, tutto è favorevole. (Il coraggioso è solo un fanfarone che sposa il rischio, che corre incontro al pericolo). L'uno si colloca al centro del mondo negativamente, l'altro positivamente; ma l'illusione è la stessa, dato che la loro conoscenza ha esattamente la stessa origine: il pericolo come unica realtà. L'uno lo teme, l'altro lo cerca: non riescono a concepire un disprezzo netto per le cose, mettono tutto in relazione con se stessi, sono troppo agitati (e tutto il male del mondo viene dall'eccesso di agitazione, dalle finzioni dinamiche del coraggio e della codardia). Sicché questi esemplari antinomici e uguali sono i fautori di tutti i disordini, i perturbatori del corso del tempo; colorano affettivamente ogni minimo avvenimento e proiettano i loro appassionati disegni su un universo che - salvo abbandonarsi a pacati disgusti - è degradante e intollerabile. Coraggio e paura: i due poli di una stessa malattia che consiste nell'attribuire indebitamente significato e gravità alla vita... è la mancanza di un'amarezza noncurante a far diventare gli uomini bestie settarie: i crimini più raffinati, come quelli più grossolani, sono perpetrati da coloro che prendono le cose sul serio. Solo il dilettante non ha gusto del sangue, lui solo non è scellerato.

Emil 56


TRIPLICE APORIA

Lo spirito scopre l'Identità; l'anima, la Noia; il corpo, la Pigrizia. è uno stesso principio di invariabilità espresso diversamente sotto le tre forme dello sbadiglio universale.

La monotonia dell'esistenza giustifica la tesi razionalistica; essa ci risvela un universo legale, in cui tutto è previsto e regolato; la sua armonia non è mai turbata dalla barbarie di una qualche sorpresa.

Se lo stesso spirito scopre la Contraddizione, la stessa anima il Delirio, lo stesso corpo la Frenesia, è per generare irrealtà nuove, per sfuggire a un universo troppo palesemente eguale; e la tesi antirazionalistica è quella vincente. Il fiorire delle assurdità svela un'esistenza davanti alla quale qualsiasi lucidità di visione appare di una povertà ridicola. è l'aggressione perpetua dell'Imprevedibile.

Tra queste due tendenze, l'uomo dispiega il proprio equivoco: non trovando il suo posto nella vita, e neanche nell'Idea, si crede predestinato all'Arbitrario; e invece la sua ebbrezza di essere libero non è che un dimenarsi dentro una fatalità, poiché la forma del suo destino non è meno regolata di quella di un sonetto o di un astro.

 

COSMOGONIA DEL DESIDERIO

Avendo vissuto e verificato tutti gli argomenti contro la vita, l'ho privata dei suoi sapori e, avvoltolato nella sua feccia, ne ho percepito lo squallore. Ho conosciuto la metafisica postsessuale, il vuoto dell'universo creato invano, e questa dissipazione di sudore che vi immerge in un freddo immemoriale, anteriore ai furori della materia. E ho voluto essere fedele al mio sapere, costringere gli istinti ad assopirsi, e ho constatato che non serve a niente maneggiare le armi del nulla se non si possono rivolgere contro se stessi. Giacchè l'irruzione dei desideri, in mezzo alle nostre conoscenze che li invalidano, crea un conflitto temibile fra il nostro spirito nemico della Creazione e il fondo irrazionale che a essa ci ricollega.

Ogni desiderio umilia l'insieme delle nostre verità, e ci obbliga a riconsiderare le nostre negazioni. Noi subiamo una disfatta pratica; eppure i nostri principi restano inalterabili... Speravamo di non essere più i figli di questo mondo, ed eccoci sottoposti agli appetiti come degli asceti equivoci, padroni del tempo e asserviti alle ghiandole. Ma questo gioco è senza fine: ogni nostro desiderio ricrea il mondo e ogni nostro pensiero lo annienta... Nella vita di tutti i giorni si alternano la cosmogonia e l'apocalisse: creatori e demolitori quotidiani, pratichiamo su scala infinitesimale i miti eterni; e ogni nostro istante riproduce e prefigura il destino di seme e di cenere attribuito all'Infinito.

 

INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI

Nessuno farebbe il minimo atto se non avesse la persuasione che quell'atto è la sola e unica realtà. Tale accecamento è la base assoluta, il principio indiscutibile di tutto ciò che è. Colui che lo discute dimostra soltanto che egli esiste meno, e che il dubbio ha minato il suo vigore... Ma, anche in mezzo ai suoi dubbi, deve sentire l'importanza dell'essersi avviato verso la negazione. La consapevolezza che nulla vale la pena diventa implicitamente una convinzione, dunque una possibilità di atto; e questo perchè anche un briciolo di esistenza presuppone una fede inconfessata; un semplice passo - fosse pure verso una parvenza di realtà - è un'apostasia nei confronti del nulla; il respiro stesso deriva da un fanatismo in embrione, così come qualsiasi partecipazione al movimento...

Dalla flanerie al massacro, l'uomo percorre la gamma degli atti soltanto perchè non ne percepisce il nonsenso: tutto quello che viene fatto sulla terra permana da un'illusione di pienezza nel vuoto, da un mistero del Nulla...

All'infuori della Creazione e della Distruzione del mondo, tutte le iniziative sono egualmente senza valore.

Emil 55


L'IRRISIONE DI UNA "VITA NUOVA"

Inchiodati a noi stessi, non abbiamo più la facoltà di deviare dal cammino iscritto nell'innatismo della nostra disperazione. Farci esentare dalla vita perchè essa non è il nostro elemento? Nessuno rilascia certificati di inesistenza. Dobbiamo perseverare nel respiro, sentire l'aria bruciarci le labbra, accumulare rimpianti dentro una realtà che non abbiamo desiderato, e rinunciare a dare una spiegazione al Male che alimenta la nostra rovina. Quando ogni momento del tempo si avventa su di noi come un pugnale, e la nostra carne, sollecita dai desideri, rifiuta di pietrificarsi - come sopportare che un solo istante si aggiunga alla nostra sorte? Attraverso quali artifici possiamo trovare la forza dell'illusione per metterci alla ricerca di un'altra vita, di una vita nuova?

Il fatto è che tutti gli uomini che gettano uno sguardo sulle loro rovine passate credono - per evitare le rovine future - che sia in loro potere ricominciare qualche cosa di radicalmente nuovo. Fanno a se stessi una promessa solenne e attendono un miracolo che li tiri fuori dal baratro mediocre in cui il destino li ha sprofondati. Ma non accade nulla. Tutti continuano a essere gli stessi, modificati soltanto dall'accentuarsi di quella tendenza a decadere che è il loro marchio. Intorno a noi non vediamo che ispirazioni e ardori degradati: ogni uomo promette tutto, ma ogni uomo vive per conoscere la fragilità della propria scintilla e la mancanza di genialità della vita. L'autenticità di un'esistenza consiste nella propria rovina. La fioritura del nostro divenire: cammino in apparenza glorioso, e che conduce a un fallimento; il rigoglio dei nostri doni: camuffamento della nostra cancrena... Sotto il sole trionfa una primavera di carogne; la Bellezza stessa altro non è che la morte che si pavoneggia nei germogli...

Non ho conosciuto vita "nuova" che non fosse illusoria e compromessa alla radice. Ho visto ciascun uomo procedere nel tempo per isolarsi in un rimuginio angoscioso e ricadere in se stesso, con la smorfia inattesa delle proprie speranze quale unico segno di rinnovamento.

 

Emil 54


IL DEMONIO

è lì, nel braciere di sangue, nell'amarezza di ogni cellula, nel fremito dei nervi, in quelle preghiere alla rovescia esalanti odio, dovunque egli fa dell'orrore il proprio benessere. Dovrei forse lasciare che scalzi le mie ore, quando potrei, complice scrupoloso della mia distruzione, rigettare le mie speranze e rinunciare a me stesso? Locatario assassino, egli divide con me il letto, gli oblii e le veglie; per perderlo, occorre che io stesso mi perda. E quando non si ha che un solo corpo e una sola anima, l'uno troppo pesante e l'altra troppo oscura, com'è possibile portare altro peso e altre tenebre?
Come è possibile tirare avanti in un tempo buio? Sogno un minuto dorato, fuori del divenire, un minuto assolato, che trascenda il tormento degli organi e la melodia della loro decomposizione.
Udire il pianto di agonia e di gioia del Male che si attorciglia nei tuoi pensieri - e non strozzare l'intruso? Ma se lo colpisci, sarà soltanto per un'inutile compiacenza verso te stesso. Egli è ormai il tuo pseudonimo, non puoi fargli violenza impunemente. Perchè tergiversare all'avvicinarsi dell'ultimo atto? Perchè non prendertela con il tuo stesso nome?

(Sarebbe del tutto sbagliato credere che la "rivelazione" demoniaca sia una presenza inseparabile della nostra durata; eppure, quando si impossessa di noi, non possiamo immaginare quanti istanti sbiaditi abbiamo vissuto prima. Invocare il Diavolo equivale a colorire con un residuo di teologia un'eccitazione equivoca, che la nostra fierezza si rifiuta di accettare come tale. Ma chi mai non conosce il terrore che ci afferra di fronte al Principe delle Tenebre? Il nostro orgoglio ha bisogno di un nome, di un nome altisonante per battezzare un'angoscia che sarebbe miserevole se provenisse soltanto dalla fisiologia. La spiegazione tradizionale ci sembra più allettante; un residuo di metafisica si addice allo spirito...
E così - per velare il nostro male troppo immediato - ricorriamo a entità eleganti, ancorché desuete. Come ammettere che le nostre vertigini più misteriose derivino soltanto da turbe nervose, quando ci basta pensare al Demonio che è in noi o fuori di noi per rialzare subito il capo? è dai nostri antenati che ci viene questa propensione a oggettivare i nostri mali intimi; la mitologia ha impregnato il nostro sangue e la letteratura ha alimentato in noi il gusto degli effetti...)


Emil 53



IDOLATRIA DELL'INFELICITà

Tutto quello che costruiamo al di là dell'esistenza bruta, tutte le molteplici forze che danno una fisionomia al mondo, li dobbiamo all'Infelicità - architetto della diversità, fattore intelligibile delle nostre azioni. Quello che esula dalla sua sfera ci supera: che senso può avere  per noi un avvenimento che non ci schiacci? Il Futuro ci attende per immolarci: lo spirito si limita a registrare la frattura dell'esistenza e i sensi vibrano soltanto nell'attesa del male... Com'è dunque possibile non meditare sulla sorte di Lucille de Chateaubriand o della Günderrode, e non ripetere con la prima: "Mi addormenterò di un sonno di morte sul mio destino", o non inebriarsi della disperazione che immerse il pugnale nel cuore dell'altra? A parte alcuni esempi di malinconia esaustiva e alcuni suicidi fuori del comune, gli uomini non sono che fantocci imbottiti di globuli rossi per generare la storia e le sue smorfie.
Quando, idolatri dell'infelicità, facciamo di essa il motore e la sostanza del divenire, ci immergiamo nella limpidezza della sorte prescritta, in un'aurora di disastri, in una gehenna feconda... Ma quando, credendo di averla esaurita, temiamo di sopravviverle, l'esistenza sbiadisce e non diviene più. E noi abbiamo paura di riadattarci alla Speranza, di tradire la nostra infelicità, di tradirci...

Emil 52



L'EQUIVOCO DEL GENIO

Ogni ispirazione deriva da una facoltà di esagerazione: il lirismo - e tutto il mondo della metafora - sarebbe un'eccitazione pietosa senza quella foga che dilata le parole sino a farle scomparire.
Quando gli elementi o le dimensioni del cosmo sembrano troppo ridotti per servire da termini di paragone alla nostra condizione, la poesia - per superare lo stadio di virtualità e di imminenza -  chiede solo un po' di chiarezza nelle emozioni che la prefigurano e la fanno nascere. Non c'è vera ispirazione che non sorga dall'anomalia di un'anima più vasta del mondo... Nell'incendio verbale di uno Shakespeare e di uno Shelley avvertiamo la cenere delle parole, ricaduta e miasma dell'impossibile demiurgia. I vocaboli sconfinano gli uni negli altri, come se nessuno di essi potesse raggiungere l'equivalente della dilatazione interiore; è l'ernia dell'immagine, la rottura trascendente di parole povere, nate dall'uso quotidiano e sollevate miracolosamente alle vette del cuore. Le verità della bellezza si nutrono di esagerazioni che, alla minima analisi, si rivelano mostruose e ridicole. La poesia: vaneggiamento cosmogonico del vocabolario... Si sono mai combinate più efficacemente la ciarlataneria e l'estasi? La menzogna - fonte di lacrime! - e l'impostura del genio e il segreto dell'arte. Inezie dilatate fino al cielo; l'inverosimile, generatore di universi! In ogni genio coesistono un millantatore e un Dio.

   

Emil 51



IL "CANE CELESTE"

Non si ha idea di quanto un uomo debba perdere per avere il coraggio di sfidare tutte le convinzioni, non si ha idea di quanto abbia perduto Diogene per diventare l'uomo che si è permesso tutto, che ha tradotto in azione i suoi pensieri più intimi con una insolenza soprannaturale, come potrebbe fare un dio della conoscenza, libidinoso e puro allo stesso tempo. Nessuno è stato più franco; caso limite di sincerità e di lucidità, come pure esempio di quello che potremmo essere noi se l'educazione e l'ipocrisia non raffrenassero i nostri desideri e i nostri gesti.
"Un giorno un uomo lo fece entrare in una casa riccamente arredata e gli disse: "Mi raccomando, non sputare per terra". Diogene, che aveva voglia di sputare, gli lanciò uno sputo in faccia, gridandogli
che quello era l'unico posto sporco che avesse trovato e dove potesse farlo." (Diogene Laerzio).
Chi non ha rimpianto, dopo essere stato ricevuto da un ricco, di non poter disporre di oceani di saliva per riversarli su tutti i possidenti della terra? E chi non si è ringoiato il suo piccolo sputo per paura di lanciarlo in faccia a un ladro rispettato e panciuto? Siamo tutti ridicolmente prudenti e timidi: il cinismo non si impara a scuola. E nemmeno la fierezza.
"Menippo, nel suo libro intitolato "Le virtù di Diogene", racconta che quando, fatto prigioniero e venduto, gli fu chiesto che cosa sapesse fare, Diogene rispose: "Comandare", e gridò all'araldo: "Chiedi dunque chi vuol comprare un padrone".
L'uomo che affrontò Alessandro e Platone, che si masturbava sulla pubblica piazza ("Magari bastasse strofinarsi il ventre per non avere più fame!"), l'uomo della celebre botte e della famosa lanterna, e che da giovane era stato falsario (esiste dignità più bella per un cinico?), quale esperienza deve aver avuto del suo prossimo? Certamente quella di noi tutti, ma con una differenza: che l'uomo fu l'unico oggetto della sua riflessione e del suo disprezzo. Senza subire le falsificazioni di qualsivoglia morale o metafisica, egli si esercitò a svestirlo per mostrarcelo più spoglio e più abominevole di quanto non abbiano fatto le commedie e le apocalissi.
"Socrate diventato pazzo" lo chiamava Platone. "Socrate diventato sincero" avrebbe dovuto chiamarlo, un Socrate che aveva rinunciato al Bene, alle formule e alla Città, diventando finalmente soltanto psicologo. Ma Socrate - pur sublime - rimane convenzionale; rimane maestro, modello edificante. Soltanto Diogene non propone niente; la base del suo atteggiamento - e dal cinismo nella sua essenza - è determinata da un orrore testicolare del ridicolo di essere uomo.
Il pensatore che riflette senza illudersi  sulla realtà umana, se vuole restare dentro il mondo e se elimina la mistica come scappatoia, giunge a una visione in cui si mescolano saggezza, amarezza e farsa; e, se sceglie la pubblica piazza come spazio per la sua solitudine, usa il suo estro per farsi beffe dei suoi "simili" o per portare dappertutto il suo disgusto, disgusto che oggi, con il cristianesimo e la polizia, non non potremmo più permetterci. Duemila anni di sermoni e di codici hanno edulcorato la nostra bile; d'altronde, in un mondo frettoloso, chi si fermerebbe per rispondere alle nostre insolenze o per dilettarsi del nostro abbiare?
Il fatto che il maggior conoscitore degli uomini sia stato soprannominato "cane" dimostra che in nessun tempo l'uomo ha avuto il coraggio di accettare la sua vera immagine, e che ha sempre disapprovato le verità nude e crude. Diogene ha soppresso in se stesso la posa. Quale mostro agli occhi degli altri!
Per avere un posto onorevole nella filosofia, bisogna essere commedianti, rispettare il gioco delle idee ed eccitarsi su falsi problemi. L'uomo quale è non deve in nessun caso essere affare vostro. Sempre da Diogene Laerzio "Avendo l'araldo proclamato ai giochi olimpici: Diossippo ha vinto gli uomini", Diogene rispose: "Ha vinto solo degli schiavi, gli uomini sono affar mio".
E, in effetti, egli li ha vinti come nessun altro, con armi più temibili di quelle dei conquistatori, lui che aveva soltanto una bisaccia, lui che possedeva meno di tutti i mendicanti, vero santo del sogghigno.
Dobbiamo apprezzare il caso che lo fece nascere prima dell'avvento della Croce. Chissà se, innestata sul suo distacco, una tentazione malsana di avventure extraumana non lo avrebbe indotto a diventare un asceta qualsiasi, in seguito canonizzato, e confuso nella massa dei beati che figurano nel calendario?
Allora sì che sarebbe diventato pazzo, lui, l'essere più profondamente normale perchè lontano da qualsiasi insegnamento e da qualsiasi dottrina. Fu il solo a rivelarci il volto orrendo dell'uomo. I meriti del cinismo furono offuscati e calpestati da una religione nemica dell'evidenza. Ma è arrivato il momento di contrapporre alle verità del Figlio di Dio quelle del "cane celeste", come lo chiamò un poeta del suo tempo.

    
   

Emil 50



IL FIORE DELLE IDEE FISSE

Finchè l'uomo è protetto dalla demenza, agisce e prospera; ma quando si libera dalla tirannia feconda delle idee, si perde e si rovina. Comincia ad accettare tutto, ad avvolgere nella sua tolleranza non soltanto gli abusi minori ma anche i crimini e le mostruosità, i vizi e le aberrazioni: tutto ha per lui stesso valore. La sua indulgenza, distruttrice di se stessa, si estende a tutti i colpevoli, alle vittime e ai carnefici; egli è di tutti i partiti, perchè sposa tutte le opinioni; gelatinoso, contaminato dall'infinito, ha perduto il suo "carattere" per mancanza di un punto di riferimento o di un'ossessione. La visione universale fonde le cose nell'indistinto, e colui che le distingue ancora, non essendo né loro amico né loro nemico, porta dentro di sé un cuore di cera che si modella indifferentemente sugli oggetti o sugli esseri. La sua pietà è rivolta all'esistenza, e la sua carità è quella del dubbio, non quella dell'amore; è una carità scettica, postumo della conoscenza, e che scusa ogni anomalia. Ma colui che prende partito, che vive nella follia della decisione e della scelta non è mai caritatevole; incapace di abbracciare tutti i punti di vista, confinato nell'orizzonte dei suoi desideri e dei suoi princìpi, è immerso in una ipnosi del finito. Le creature sbocciano solo voltando le le spalle all'universale... Essere qualcosa - senza condizioni - è sempre una forma di demenza da cui la vita - fiore delle idee fisse -  non si affranca se non per languire. 

Emil 49



L'OMBRA FUTURA

Ci è consentito immaginare un tempo in cui avremo superato tutto, anche la musica, anche la poesia, un tempo in cui, detrattori delle nostre tradizioni e dei nostri fervori, giungeremo a sconfessare noi stessi a tal punto che, stanchi di una tomba scontata, attraverseremo i giorni in un sudario liso. Quando un sonetto, il cui rigore innalza il mondo verbale al di sopra di un cosmo superbamente immaginato, quando un sonetto cesserà di essere per noi una tentazione di lacrime, e quando nel mezzo di una sonata i nostri sbadigli trionferanno sull'emozione - allora i cimiteri non ci vorranno più, loro che accolgono solo cadaveri freschi, ancora percorsi da un briciolo di calore e da un ricordo di vita.
Prima della vecchiaia, verrà un tempo in cui, ritrattando i nostri ardori e curvi sotto le palinodie della carne, cammineremo per metà carogne e per metà spettri... Avremo represso - nel timore di complicità con l'illusione - ogni palpito in noi. Per non essere riusciti a disincarnare la nostra vita in un sonetto, ci trascineremo dietro la nostra putredine in brandelli e, per essere andati più lontano della musica o della morte, avanzeremo incespicando, ciechi, verso una funebre immortalità... 

Emil 48


IL RINNEGATO

Si rammenta di essere nato da qualche parte, di aver creduto agli inganni nativi, di aver proposto princìpi e vantato idiozie appassionate. Ne ha vergogna, e si accanisce ad abiurare il suo passato, le sue patrie reali o sognate, le verità scaturite dalle sue midolla. Non troverà pace se non dopo aver annientato in sé l'ultimo riflesso del cittadino e gli entusiasmi ereditati. Come possono la consuetudine del cuore tenerlo ancora incatenato, quando vuole emanciparsi dalle genealogie e quando l'ideale stesso del saggio antico, spregiatore di tutte le città, gli pare un compromesso? Colui che non può più prendere partito, perchè tutti gli uomini hanno necessariamente ragione e torto, perchè tutto è giustificato e irragionevole al tempo stesso, dovrebbe rinunciare al proprio nome, calpestare la propria identità e ricominciare una vita nuova nell'impassibilità o nella disperazione. Oppure inventarsi un altro tipo di solitudine, emigrare nel vuoto, preseguire - seguendo il variare degli esili - le tappe dello sradicamento. Libero da tutti i pregiudizi, egli diventa l'uomo inutilizzabile per eccellenza, a cui nessuno si appella e che nessuno teme, perchè egli ammette e ripudia ogni cosa con lo stesso distacco. Meno pericoloso di un insetto distratto, è però un flagello per la Vita, giacché essa è scomparsa dal suo vocabolario, insieme ai sette giorni della Creazione. E la Vita lo perdonerebbe, se almeno prendesse gusto al Caos in cui essa ha esordito. Ma lui rinnega le origini febbrili, a cominciare dalla propria, e del mondo conserva solo una memoria fredda e un rimpianto educato.

(Di rinnegamento in rinnegamento, la sua esistenza si assottiglia: più vago e più irreale di un sillogismo di sospiri, come potrebbe essere ancora fatto di carne? Esangue, egli rivaleggia con l'Idea; si è astratto dai suoi avi, dagli amici, e da tutte le anime e da se stesso; nelle sue vene, un tempo turbolente, riposa la luce di un altro mondo. Emancipato da ciò che ha vissuto, incurante di ciò che vivrà, egli abbatte le pietre miliari di tutte le strade e si svelle dai segnali di tutti i tempi. "Non mi incontrerò mai più con me stesso", pensa, felice di rivolgere il suo ultimo odio contro di sé, e ancor più felice di annientare - nel suo perdono - gli esseri e le cose).